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Processo Eternit: giustizia per chi ora non ha più voce

Aperto a Torino il maxi-processo contro i vertici della società Eternit SpA per i danni causati alla salute degli operai nelle lavorazioni di amianto e la morte di quasi 3.000 persone in quattro stabilimenti italiani.

Sono 4.500 le parti civili pronte a costituirsi in giudizio e 5 miliardi di risarcimenti totali richiesti (di cui 2 dall’Inps).

E’ iniziato tutto con un brevetto e un battesimo latineggiante: nel 1901, Ludwig Hatschek scopre il fibrocemento e lo chiama "Eternit", da "aeternitas": eternità. Un anno dopo, Alois Steinmann acquista la licenza e fonda la "Schweizerische Eternitwerke AG".
 
Eternità: in una sola parola, la caratteristica peculiare della miscela di cemento e fibre di amianto, fortemente resistente anche al calore e, quindi, particolarmente indicata per tutti quei prodotti che necessariamente devono risultare a prova di fuoco. Tute anti-incendio, tubature fognarie, acquedotti, navi, tetti e materiale edile di diverso tipo: tutto recava il marchio Eternit.
 
Un materiale indistruttibile. Pare quasi di risentire la terribile eco del costruttore del Titanic, ritenuto inaffondabile e poi colato a picco durante la sua prima traversata oceanica, portandosi dietro un muto strascico di vite spezzate. Le vittime, in entrambi i casi, seguono tristemente ogni dichiarazione di indistruttibilità.
 
L’eternità, da termine positivo legato alle logiche di mercato e dell’espansione edilizia, si tramuta in una tetra condanna a morte, sputata da qualche signorotto che ha a cuore più l’orologio d’oro massiccio legato al proprio panciotto che la vita degli operai che lavorano nella propria fabbrica e che lo aiutano a costruire, giorno dopo giorno, la sua ricchezza.
 
Gli stabilimenti, in Italia, erano diversi: il primo fu costruito a Casale Monferrato nel 1907, e venne seguito da Cavagnolo, Bagnoli, Rubiera, e Siracusa. Diedero lavoro a migliaia di operai, fino agli anni ’80. Quello di Casale Monferrato chiuse i battenti solo nel 1987, per bancarotta.
 
Ci lavorava povera gente che non aveva altra opportunità di lavoro: si doveva mandare avanti la baracca, dare il pane alla famiglia, far crescere i propri figli in maniera dignitosa. Le testimonianze dei lavoratori di Casale Monferrato riportati nel documentario "Indistruttibile" di Michele Citoni lo dimostrano. "Mio padre morì nel 1943", spiega un’ex lavoratrice della Eternit, "e lasciò me, mia madre e le mie due sorelle nella povertà. Quando le mie sorelle si sposarono, io iniziai a lavorare in fabbrica. Ma, dopo un paio d’anni, questa venne spostata in uno stabilimento molto lontano dalla mia città, e non mi rimase che lavorare per la Eternit".
 
Le condizioni di lavoro erano pessime. Si lavorava in un capannone su due livelli, e le dita letali della polvere arrivavano alle gole non solo dei lavoratori, ma anche della popolazione, come poi si scoprì in seguito. E non c’è da meravigliarsene. "Uno dei miei ricordi più vivi" ricorda Giovanna Patrucco, dell’Associazione Famiglie Vittime dell’Amianto, "è legato alla panetteria dei miei genitori, che sorgeva nei pressi della fabbrica. Non esisteva la mensa, così ogni giorno, durante la pausa pranzo, i lavoratori venivano nel nostro negozio a comprare pane e companatico. Indossavano sempre le tute blu, ed erano completamente ricoperti di polvere bianca".
 
Qualcuno dirà: erano altri tempi, non si sapeva che l’amianto nuocesse alla salute di chi lo maneggiava (e, purtroppo anche a quella di chi non lo faceva). E si può gridare forte e chiaro "maneggiava", perché spesso i "facchini" lo gettavano nelle fornaci solo per mezzo di un forcone, "quasi a mano" come spiega uno degli ex-dipendenti della multinazionale. Invece, quella che potrebbe essere a un primo avviso solo una mancanza data dall’ignoranza, diventa un’azione voluta: la tossicità del fibrocemento era volutamente ignorata dai vertici Eternit.

Nonostante l’impiego dell’amianto sia fuori legge in Italia solo dal 1992 (legge n. 257 del 1992), infatti, tutti sapevano che si trattava di un killer spietato: nessuno gliel’aveva imposto, eppure gli operai cercavano di difendersi come potevano utilizzando delle mascherine e, quando un giovane lavoratore si aggiungeva al loro gruppo, gli domandavano se fosse per caso impazzito, ad andare a morire volontariamente. Inoltre, esistono studi risalenti al 1920 che attestano la pericolosità delle fibre di amianto, e vennero mandati avanti fino agli anni ’50 e ’60. A Casale Monferrato dei medici riuscirono a evidenziare la stretta correlazione tra le malattie dei lavoratori degli stabilimenti Eternit e l’inalazione delle polveri.
 
Arrakis, documentario poetico ci regala la tremenda testimonianza di Silvestro, ex lavoratore di uno stabilimento che nel 1996 è stato laringectomizzato a causa di un tumore. Ha perso le corde vocali e la laringe, e ricorda la sua storia e quella dei suoi compagni attraverso stralci di voce, ormai metallica come il male che gliel’ha strappata: "Si chiamava Franco Camporeale, lavoravamo sulla stessa macchina. Veniva al lavoro, si appoggiava alla macchina e vomitava l’anima. Io pulivo e gli dicevo: "Franco, ma cosa ci fai qua? Non vedi che stai male? Stai a casa!" e lui mi rispondeva: "Se vado a casa mi mandano subito il medico fiscale, e mi fa rientrare". Aveva 45 anni, quando è morto. Quanti miei amici sono morti, anche più giovani di me".
 
A che cosa sono stati condannati Silvestro, Franco e le migliaia di lavoratori che sono stati incastrati da quelle maledette tute blu sporche di bianco? Asbestosi, mesotelioma pleurico, pericardico e peritoneale, carcinoma polmonare. Chi respirava quella polvere, arrivava a non respirare più nemmeno quella. Non tutti sono stati "fortunati" come Silvestro, molti si sono liberati del lavoro e della vita in un unico colpo.
 
Questa mattina alle 10 e un quarto, a Torino, è iniziato il processo che vede come imputati i vertici della multinazionale: il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Luis de Cartier de Marchienne. L’inchiesta è stata aperta nel capoluogo piemontese nel 2004, in seguito all’esposto di un operaio italiano che aveva lavorato per l’Eternit in Svizzera ed era morto a Torino per mesotelioma. Al primo passo della vittima si era aggiunto il grido di Casale Monferrato, da cui partì un maxiesposto con migliaia di nomi di persone ammalatesi o decedute in seguito all’esposizione alle polveri di fibrocemento.
 
I due imputati, assenti oggi in aula, rispondono di disastro ambientale doloso e permanente, dal momento che neppure dopo la chiusura della fabbrica si adoperarono per ridurre al minimo il rischio ambientale, riversatosi disastrosamente sulla cittadinanza. Perché l’amianto non è dannoso solo per gli operai delle fabbriche in funzione: "C’è quello naturale che emerge in superficie e giace all’aria aperta nelle miniere o nelle cave abbandonate da almeno vent’anni, quello grezzo contenuto in sacchi spesso malandati e stoccati nei magazzini o nei piazzali degli stabilimenti produttivi e quello miscelato con il cemento nella classica ondulina dei tetti e nelle tamponature degli edifici industriali o domestici realizzati negli anni ’70 e ’80 e presente diffusamente in tutta Italia", come spiega Legambiente.
 
"Sarà un processo molto lungo ma speriamo sia anche un processo giusto. Ci sono tutte le premesse: grandi giudici, grandi avvocati, speriamo di essere anche noi all’altezza": sono le parole del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello. E non possiamo far altro che augurarci insieme a lui che la giustizia riesca a ricordare e placare in modo degno le sofferenze di quanti, come Franco Camporeale, hanno "vomitato persino l’anima".

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.151) 15 dicembre 2010 14:16

    Da questo processo si attende una grande giustizia,per le perdite dei propri cari caduti sul lavoro per colpa dell’amianto.Si deve notare,in questo processo ci saranno molte famiglie di ex operai che andranno fino in fondo per il solo motivo,per il rispetto delle vittime.Rispetto a persone che attualmente soffrono per patologie professionali,rispetto a famiglie che hanno sofferto,e famiglie che attualmente soffrono.Questo maxi processo deve fare luce a tanti operai deceduti per causa saputa,e dare giustizia e rispetto ai caduti sul lavoro e operai che attualmente lottano giorno dopo giorno per un respiro.Si chiede alla corte di fare luce sulle cause,è dare una pena severa ai colpevoli che benissimamente si poteva evitare tanto dolore. Un grazie tanto a tutte le autorità,del processo.

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