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Obama e il compromesso Sudan, l’Italia e le armi vendute

Il presidente al-Bashir è condannato dall’Aja, ma c’è bisogno di lui per la pace. Le industrie italiane intanto gli vendono armi.

IMPEGNO FORTE. Il presidente USA, ormai in carica da quasi un anno, in politica internazionale è sempre più esposto al compromesso. Ma si è sempre qualificato come tale. Un compromesso che a volte è stato definito vigliaccheria dai repubblicani. Lui la definisce diplomazia. Qualsiasi termine si usi, è una tecnica che permette sia di guadagnare tempo, sia di trovare nuove soluzioni. Chiaramente non è una politica che paga sempre.

Proprio ora è più attiva che mai, con l’Afghanistan (il nuovo ballottaggio), l’Iran (la ripresa dei negoziati sul nucleare) ma anche con il Sudan.

Il presidente di questo paese, al-Bashir, è sotto pressione da quando la corte dell’Aja ha emesso un mandato di cattura internazionale, con l’accusa di crimini contro l’umanità. In seguito Gheddafi, presidente di turno dell’Unione Africana, ha detto ai paesi membri di non rispettare questa decisione. La domanda quindi è: se il presidente del Sudan andasse in un altro paese, verrebbe arrestato?
Ora che i toni polemici si sono smorzati, ecco riapparire il vecchio metodo della carota e del bastone dalla presidenza statunitense, anche se è l’opposto di quanto Obama aveva annunciato in campagna presidenziale, rispetto al Sudan. A quel tempo aveva utilizzato parole forti, chiamato per una no-fly zone (area con divieto di sorvolo di qualsiasi aereo) sopra il Darfur (dimenticando che era una crisi in via di risoluzione, mentre ora il dramma si è spostato nel Sud Sudan). Suggerì, anche sanzioni petrolifere. La realtà con l’impegno presidenziale si è fatta largo.

IL COMPROMESSO. Dal 2003 in Sudan hanno perso la vita circa 300.000 persone, ma l’inviato degli USA nella regione Scott Gration ha detto chiaramente che grazie agli sforzi della comunità internazionale, vi è ormai solo una "rimanenza" del genocidio. Molti attivisti tuttavia sostengono che questo continua, anche se non ci sono più omicidi di massa. Gration ha fatto osservare che è meglio focalizzarsi sul recupero della regione.

I nuovi sforzi diplomatici portati avanti dalla Clinton,e anche dall’ambasciatore USA presso l’ONU, hanno prodotto un nuovo "compromesso": la minaccia di sanzioni (che secondo alcuni analisti destabilizzerebbe il Paese e affamerebbe ancora di più la popolazione) e le promessa di incentivi se il Sudan terminasse le violenze.


Un ufficiale del dipartimento di stato ha dichiarato che il Sudan sa cosa gli USA vogliono e gli USA sanno cosa il Sudan vuole. Questo potrebbe indicare che l’incentivo principale potrebbe essere rendere più morbide alcune sanzioni imposte negli anni ’90, a causa del presunto supporto del Sudan al terrorismo.
Ma non è chiaro quale tipo di pressione possa esercitare il governo USA nel caso le violenze non si fermino. Il governo di Khartoum - capitale del Sudan - ha reagito positivamente alla mossa, dicendo che è un passo avanti rispetto alle politiche precedenti. L’unica critica è stato l’uso "infelice" (secondo il portavoce) della parola "genocidio" da parte della Clinton, che ne ha comunque dovuto parlare per non scontentare la parte civile internazionale.

Anche l’amministrazione Bush, nell’ultimo periodo, aveva cominciato ad usare un approccio più pragmatico nella faccenda. Tuttavia, la novità di Obama è che si sta provando a parlare non solo del Sudan, ma estendere il processo di pace al Nord e Sud Sudan. L’obiettivo è cercare l’attuazione di una fragile pace del 2005 tra Karhoum e i precedenti ribelli che operavano nel Sud, prima delle elezioni nazionali del 2010 e del referendum del 2011 sull’eventuale secessione della parte meridionale, ricca di risorse energetiche e minerarie.

TRATTARE CON CHI? L’ambasciatore di Khartoum a Londra ha dichiarato che i processi di pace del 2005, firmati dalle parti, avrebbero dovuto essere supportati dai soldi delle Nazioni Unite, e un suo contingente infatti è stato posizionato al confine del Sudan. Secondo lui, però, i contingenti non hanno mai dichiarato di aver avuto informazioni di armi circolanti provenienti dai paramilitari o dall’esercito del Sudan.

Si pensa che l’ostacolo principale sia proprio il presidente sudanese. Per questo Obama ha dichiarato che si rivolgerà nelle trattative al governo Sudanese, ma non con al-Bashir direttamente. Le accuse che pesano sul suo capo sono troppo pesanti, e parte dell’amministrazione è dell’opinione che dovrebbe prendere un buon avvocato e consegnarsi all’Aja. Tuttavia, rimane sempre la più alta carica del Paese africano, e potrebbe non voler proseguire i negoziati senza alcun vantaggio per se stesso.

L’EXPORT ITALIANO. L’Italia come sempre dice una cosa e ne fa un’altra. Mentre appoggia a parole l’amministrazione Obama, le sue industrie continuano a produrre e vendere armi al governo sudanese. Human Rights First ha pubblicato pochi giorni fa un nuovo rapporto su questo commercio. Andando anche contro due risoluzioni (la 1556 del 2004 e, poi, la 1591) delle Nazioni Unite che prevedono l’embargo di armi al Sudan e alle milizie - quindi violando un trattato internazionale - l’Italia si è resa colpevole di circa 300.000 dollari di fatturato, indiretto, tra il 2004 e il 2005. Indiretto perché il nostro paese vende le armi a paesi che sono sotto meno controllo, quali la Russia o altri, per poi rivenderle in Sudan.
Interrogati da Human Rights first, il Ministro dell’Interno e il Ministro per gli affari esteri italiani hanno negato che sia stata data qualsiasi autorizzazione di vendita di armi al Sudan dal 2004. Infatti le industrie sono private, compito dello Stato è vigilare che non avvenga.

La Cina è in prima posizione nella vendita con 55 milioni di dollari e l’Iran secondo con 12 milioni di dollari. Nei produttori di armi che arrivano nel Paese africano non potevano mancare, ovviamente, gli Stati Uniti.

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