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Non è reato soccorrere i clandestini in mare, farli sbarcare in Italia sì

L’arresto dei nove pescatori tunisini nell’Agosto del 2007 aveva aperto un contenzioso diplomatico tra Roma e Tunisi. Ora sette di loro sono stati assolti.

Correva l’Agosto 2007, ed a Palazzo Chigi sedeva ancora il governo Prodi: l’otto agosto di quell’anno un peschereccio tunisino che incrociava nel Canale di Sicilia avvistò e soccorse un barcone in grave difficoltà che rischiava di naufragare. Si avvicinò ed issò a bordo i clandestini salvando loro così la vita. Poi fece rotta verso Lampedusa con l’intento di sbarcarli ed affidarli alle autorità di polizia italiane.
 
Nel porto della maggiore delle isole Pelagie però i sette marinai, Bayoudh Abdelkarim, Bayoudh Mohamed Amin, Ibrahim Hamza, Kalifha Kamel, Zenzri Abdelbasset, Gharred Lassad e Jafouri Abdelwahed, ed i due comandanti del peschereccio, Bayoudh Abdelkarim e Zenzri Abdelbasset, furono arrestati con l’accusa di essere degli scafisti e vennero ristretti per 32 giorni nel carcere di Agrigento. La barca e gli altri attrezzi di lavoro vennero confiscati e successivamente distrutti.
 
Il fatto creò un contenzioso diplomatico di non poco conto con la Tunisia, Paese di cui i nove erano cittadini. Scarcerati, furono espulsi dall’Italia ed oggi, senza più possedere gli attrezzi necessari per la pesca, si trovano a vivere d’inedia nel villaggio tunisino di Teboulda.
 
Ieri il Tribunale di Agrigento ha emesso la sentenza di primo grado nei loro confronti. E’ una sentenza che gli avvocati difensori sin da subito hanno definito contraddittoria e molto pericolosa, giacché pone in dubbio il sacro principio del soccorso in mare e del ricovero dei naufraghi nel porto più vicino.
 
I nove marinai tunisini sono stati assolti dall’accusa, e si è statuito che non hanno favorito in alcun modo l’immigrazione clandestina. I due comandanti, però, sono stati condannati a due anni e sei mesi di reclusione ciascuno per aver disatteso l’ordine delle autorità marittime italiane di non entrare nelle acque territoriali del nostro Paese.
 
L’accusa aveva chiesto la condanna di tutti e nove gli imputati a tre anni e mezzo ciascuno. Ora, la difesa dei due condannati ricorrerà alla Corte d’Appello di Palermo cercando di far riformare in senso a loro favorevole la sentenza di primo grado.
 
“Il Diritto della Navigazione è chiaro in tal senso: chi si trova di fronte a naviganti in difficoltà è tenuto a fermarsi, prestare soccorso e ricoverarli nel porto più vicino. E’ quello che hanno fatto i nostri assistiti, ma per le autorità giudiziarie italiane il respingimento dei clandestini rappresenta un valore certamente più importante del salvamento di vite umane. Da oggi vuol dire che, per non rischiare l’arresto o la confisca di quelli che sono gli strumenti del loro lavoro, i comandanti delle navi e dei pescherecci che navigano nel Mare di Sicilia non soccorreranno più nessuno, facendo morire impietosamente i naufraghi che chiederanno loro aiuto” è l’amaro commento dei difensori dei due condannati. Già da oggi, infatti, con l’inasprimento delle norme sull’immigrazione clandestina, che è diventato reato penale, i barconi carichi di disperati provenienti dall’Africa non vengono in alcuni casi più soccorsi: troppo grande è la paura da parte di padroni e comandanti dei pescherecci di vedere confiscata l’imbarcazione.
 
Nel Canale di Sicilia quotidianamente le norme sacre del mare contenute nel Codice della Navigazione vengono disattese: l’ordine è di impedire ad ogni costo ai disperati provenienti dal sud del mondo di sbarcare sulle coste europee, appartenenti a Paesi chiusi nel loro bieco egoismo. La civiltà giuridica a sud di Agrigento ha trovato la sua tomba.

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