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L’uomo del fiume

Partono ” i rumori” del carcere.

"L’uomo del fiume"
 
Un uomo sta passeggiando lungo la riva di un fiume, quando si accorge che c’è una persona che sta affogando, lottando inutilmente contro le rapide. Improvvisamente si avvede che dall’altra parte della riva un pescatore si è nel frattempo tuffato in acqua nel generoso tentativo di raggiungere il disgraziato che sta affogando: con fatica riesce ad agguantarlo e a trascinarlo a terra, ove gli pratica la respirazione bocca a bocca, salvandolo.
 
Ma dopo pochi minuti si ripete una situazione analoga: un altro uomo rischia di soccombere nel fiume e il medesimo pescatore si getta in suo aiuto e ancora una volta riesce nel suo eroico intento.
 
Ma in breve di nuovo la situazione si ripete, una due tre volte ancora, fino a quando il pescatore, di fronte ad un altro in pericolo di vita, invece di buttarsi in acqua comincia a correre risalendo la corrente del fiume.
Stupito, lo spettatore lo ferma chiedendogli: ” Ma che stai facendo? Perché non cerchi di salvare quel disgraziato come hai fatto con gli altri?”.
 
"Questa volta - risponde il pescatore - voglio andare a vedere chi diavolo getta in acqua questi uomini”.
 
La storia di Saul Alinsky rappresenta in maniera plastica la frustrazione di quanti lavorano nel mondo dell’emarginazione rimettendo in discussione, ogni giorno, il proprio lavoro di fronte alle poche vittorie ed alle tante sconfitte. La cosa è ancor più evidente nel carcere, che ogni tanto esce dalle nebbie che lo circondano per finire sotto i riflettori.
 
Lo vediamo in questi giorni con gli spazi sulla stampa occupati dal problema del sovraffollamento. Dubito che qualche gruppo politico assuma disinvoltamente la paternità di un provvedimento clemenziale, notoriamente sgradito alla maggior parte dell’elettorato poco sensibile ai “rumori” del carcere.
 
Di segnali concreti, a chi vive nel carcere di qua o al di là delle sbarre, non ne arrivano molti mentre l’arrivo quotidiano di centinaia e centinaia di arrestati è un dato reale e statistico. Oltre il 48% dei detenuti sono in custodia cautelare, le presenze sono circa 66.000 su 43.327 posti letto disponibili, tanto che si è pensato anche di riaprire Pianosa ed altri penitenziari dismessi.
 
L’esperienza del passato - anche quella dell’ultimo indulto - ci ha insegnato che, a legislazione o giurisprudenza immutata, nello spazio di due o tre anni il problema del sovraffollamento si ripropone nella sua drammaticità. Un’altissima percentuale degli “indultati”, infatti, è ritornata in carcere, per naturale predisposizione a violare disinvoltamente le leggi alla ricerca di una vita più facile o per scelte condizionate dalla impossibilità di rientrare in una società che apre periodicamente le porte del carcere ma chiude disinvoltamente quelle dell’accoglienza.
 
Il progetto di restyling giudiziario in corso in questi mesi, l’impossibile incarico affidato al Capo del Dipartimento di risolvere il problema dell’edilizia penitenziaria in due anni (un carcere non è un recinto da campo profughi) diventa pericoloso se non rientra in un piano di più ampio respiro, se non si depenalizzano alcuni reati minori, se le misure alternative restano un sogno nel cassetto, se il carcere resta solo un problema per gli addetti ai lavori.
 
Il tema carcere non è merce elettorale, perché dietro la demagogia, dietro le quinte dei convegni e dei dibattiti televisivi, c’è il destino dei 66.000 detenuti giornalmente “residenti” pressati oggi in una gigantesca pentola a pressione che comincia da nord a sud a far sentire il suo gorgoglio, i suoi rumori fatto di scodelle battute contro le inferriate. Speriamo solo che il bollore non raggiunga il punto di non ritorno e che il coperchio non salti. Chi ha vissuto il carcere degli anni bui sa cosa significano quei rumori.
 
E’ indubbio che vi è una costante ed insanabile contraddizione tra una sacrosanta esigenza di sicurezza che sale dal Paese e la necessità di maggiori investimenti in termini di risorse umane e finanziarie per rendere decorose e sufficienti le nostre strutture penitenziarie. E’ altrettanto vero che il problema non si risolve costruendo nuove carceri, anche perché – se la mentalità non cambia – saranno poco efficienti, vuoi per mancanza di personale vuoi per mancanza di soldini.
 
Da decenni il carcere è una istituzione perennemente rattoppata a causa di una disattenzione storica ed invero politicamente trasversale. Da sempre si sono fatti i conti della serva con un bilancio che a stento e male assicura la gestione del quotidiano.
 
L’emergenza finanziaria che caratterizza il Paese ed i tempi tecnici necessari per realizzare nuove strutture non autorizzano rosee previsioni. Gli operatori hanno sempre chiesto maggiore attenzione e maggiori investimenti perché un carcere solo custodiale è un carcere violento e continuerà a restituire cittadini violenti in un processo di reciproca irreversibile autoalimentazione che ne accentua il fallimento.
E’ un grande dilemma. Basta scegliere, come il pescatore di Alinsky: o si nuota insieme o si va sul ponte, a buttar giù pensando di aver risolto così il problema.
 
 

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