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L’essenza del dialogo

 

Non si può restare del tutto insensibili ai dibattiti che stanno animando la Svizzera in queste settimane. E, tra tutte, trovo estremamente coinvolgente la discussione sul referendum che richiede il divieto di esportare armi svizzere all’estero.

Non riesco a non farmi affascinare da questo confronto, proprio perché le prospettive, le visioni e le concezioni che stanno alla base dei ragionamenti di entrambi gli schieramenti sono così diametralmente opposte, così irrimediabilmente incommensurabili, che difficilmente si può usare la parola “confronto” senza sorridere.

Pare di vedere due eserciti disposti su piattaforme distanti e distinte che non si toccano mai, che nemmeno si intravvedono, e ognuno mulina la propria spada nel vento, urla le sue ragioni alla nebbia, e ai compagni che gli stanno accanto.

I due siti internet che sostengono le opposte posizioni dipingono magistralmente il baratro assiomatico che divide i favorevoli e i contrari: da una parte si stormisce di etica, di ingiustizia, di morale, dall’altra si snocciolano cifre, si citano statistiche, si spiattellano previsioni congiunturali.

Non nascondo – non posso nascondere – la mia istintiva simpatia per gli idealisti, per i romantici che si aggrappano a “quel che è giusto” senza compromessi, che si gettano a corpo morto su un’ipotesi di giustizia rischiando quotidianamente di rompersi il cranio scoprendola impalpabile. Se potessi – e lo vorrei – voterei sempre come loro: con il cuore in mano e un calcio nel culo al pragmatismo.

Ma riconosco – devo riconoscere – che anche la lucidità mi affascina: ho sempre considerato un grande merito quello di saper analizzare una situazione per quella che è, rifuggendo da ogni congettura o ideale che non sia dettato dalla “realtà effettuale” di machiavelliana memoria.

Eppure più il tempo passa, più mi rendo conto che è necessario trovare una struttura di pensiero che riesca a dirimere questi “confronti asimmetrici”, ovvero queste discussioni dove i postulati dai quali si muovono le parti in conflitto sono così differenti da non offrire (almeno apparentemente) nessun “campo di battaglia” comune.

Uno strumento estremamente utile in questo senso è il concetto di “onere della prova”. L’ “onere della prova” è il fardello di chi, in una contesa, si ritrova a difendere una posizione che egli stesso riconosce come una necessaria abdicazione al Giusto. È una mia convinzione che l’uomo sia dotato di una percezione molto chiara di cosa sia Bene, Giusto, e di cosa sia Sbagliato. Ma spesso – e giustamente – si ritrova costretto a edulcorare i principî che riconosce come tali in virtù di una contingenza, di una necessità che, però, richiede di essere giustificata. Potrà sembrare utopistico e inapplicabile alle situazioni concrete, ma non lo è, e, anzi, una volta assimilato questo meccanismo non si fatica a ritrovarlo nella quasi totalità delle scelte umane.

Qualche esempio.

L’esistenza di entità di controllo e di coercizione non sono mai state considerate un Bene in termini etici. L’ideale generale di Bene è, al contrario, la condizione di libertà e di giustizia, l’assenza di oppressione. Ma, utilitaristicamente, abbiamo considerato che la limitazione di questo Bene fosse necessaria, e abbiamo costituito lo Stato, le leggi, i tribunali. In questo caso, l’onere della prova spetta a chi ha invocato la circoscrizione del Bene, del Giusto, in nome di una necessità contingente.

Oppure, ancora, nessuno considera l’aborto un Bene, nessuno considera l’atto di abortire Giusto: l’aborto è indiscutibilmente Male, e nessuna persona sana di mente potrebbe mai asserire il contrario. Ma c’è chi afferma che esso sia, in determinate situazioni, un Male necessario, un Male giustificato dalla circostanza. E l’onere della prova spetterà proprio a chi vuole permettere la perpetrazione di un Male affermandone la necessità.

Questo meccanismo si ripresenta a ogni livello della nostra vita, ad esempio quando ci troviamo a dover decidere o meno se dire la verità a un nostro amico rischiando di ferirlo: sappiamo perfettamente che dire la verità è Giusto, ma possiamo decidere, ricorrendo a un’argomentazione adeguata, che quel Giusto possa essere ignorato, se la situazione lo richiede. Anche qui, è a noi che spetta l’onere della prova.

Come ipotesi generale, dunque, personalmente credo sia utile assumere che il Bene giustifica sé stesso in sé stesso, ovvero non necessita di alcuna argomentazione altra che il suo semplice affiorare alla mente. Al contrario, l’azione che nega il Bene non è necessariamente sbagliata, né è automaticamente assimilabile al Male. Può anzi darsi che sia proprio la decisione giusta, se supportata da argomentazioni sufficientemente solide riguardo la sua necessità.

Il caso del referendum svizzero sulle armi è, in questo senso, un caso emblematico.

Nemmeno i detrattori dell’iniziativa volta a vietarne l’esportazione arrivano ad affermare che la produzione e l’esportazione di materiale bellico sia giusta. È evidente, infatti, che nessun individuo nel pieno possesso delle sue facoltà mentali preferirebbe il mondo attuale a un mondo senza armi né guerra. La bontà etica dell’iniziativa non è quindi messa in discussione da nessuno: l’onere della prova spetta quindi a chi sostiene che l’esportazione di armi sia necessaria.

Spetterà poi ai sostenitori dell’iniziativa confutare o svilire la validità di queste argomentazioni, ricorrendo a contro-argomentazioni che non si ispirino esclusivamente all’etica e alla morale, ma che entrino nel merito contingente della questione.

È perfettamente inutile controbattere alla contingenza con il moralismo nudo e crudo, per il semplice motivo che la sua fondatezza è, nella quasi totalità dei casi, già riconosciuta come valida.

Per finire ci sarà chi, non convinto dagli argomenti di necessità, deciderà di seguire il proprio senso etico e chi, al contrario, sarà disposto – altrettanto legittimamente – a sacrificare il Bene sull’altare del pragmatismo. In entrambi i casi, però, questa scelta sarà lucida e consapevole, e si darà a ognuno la possibilità di discutere le proprie convinzioni su un piano di confronto condiviso, e che permetta finalmente di raffrontare due posizioni che, altrimenti, sarebbero rimaste irrimediabilmente su piani troppo, troppo incommensurabili.

È importante rendersi conto che, in ultima analisi, la scelta del singolo sarà sempre e comunque dettata da una sensibilità unica, peculiare e fondamentalmente soggettiva: tutto ciò che possiamo fare è favorire il dialogo, affinché questa scintilla individuale e meravigliosa possa manifestarsi nella maniera più limpida, e il più possibile al di fuori da gabbie imposte, suggerite o – peggio – autoimposte.

La mia riflessione potrebbe terminare a questo punto: la mia intenzione è solo quella di trovare un modo per avvicinare e rendere comparabili due visioni incompatibili su una scelta politica. Chissà se, nei prossimi giorni, troverò il tempo di entrare nel merito della questione, e di rendere più esplicita la mia posizione...

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