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Il primo anno di Obama. Sogni, utopie, insidiosa realtà

Un anno fa, il 4 novembre del 2008, negli Usa accadeva l’inimmaginabile: un presidente nero per la prima volta alla Casa Bianca.
Sono passati trecentosessantacinque giorni da quando a Chicago nel quartiere inter-etnico di Hyde Park, dove l’ideologia che accomuna tutti è semplicemente l’opposizione allo status quo, venne eletto alla carica più prestigiosa del mondo un Community Organizer, organizzatore di comunità, che ha tanto a cuore il destino delle classi derelitte della città, da impegnare anima e corpo nella più insidiosa, ostacolata corsa verso la Presidenza.
 

Grazie all’aiuto di due o tre facoltose famiglie della città e la prestigiosa consulenza del guru della comunicazione politica David Axelrod, Barak Obama vince e si appresta a realizzare il sogno americano.

Ci riesce? Quanti ostacoli e di che natura, deve superare?

Intanto la novità più sconvolgente del programma di Obama è oggi sotto gli occhi di tutti. E’ lo straordinario capovolgimento dell’immagine degli Usa nel mondo. E non solo. Anche all’interno di questo imprevedibile Paese tutto sta cambiando molto rapidamente, come osserva il corrispondente per il quotidiano La Stampa, Maurizio Molinari, nel nuovissimo libro “Il Paese di Obama” Editore Laterza.
 
Se fino ad ieri la faccia dell’America bianca e protestante era quella dell’imperialismo che detta legge e impone al resto del mondo la supremazia della potenza (militare, economica, culturale), con Obama la faccia dell’America multiculturale e interetnica si presenta con la mano tesa, consapevole che la pretesa supremazia americana non ha più senso nel mondo globalizzato: ci sono altre nazioni come India e Cina il cui sviluppo economico è in grado di minare seriamente la tracotanza americana.
 
Anche la politica della mano tesa contro il pugno chiuso, come Obama stesso definì nel primo discorso di insediamento l’approccio verso gli stati fino allora ostili come l’Iran, la Palestina e in generale verso l’Islam ribelle, sta lentamente raccogliendo i frutti. Non si parla più di “guerra” né di aggressione, bensì di diplomazia.

Significativa è la politica in Afghanistan, diplomatica e bellica allo stesso tempo: accanto al generale Petraeus che già si distinse nella guerra in Irak, Obama si affida alla Cia e ai servizi segreti, uomini e donne-ombra che hanno “il compito di affiancare, proteggere,sostenere, i nostri militari in Afghanistan” (parole del vicepresidente Joe Biden tratte dal libro “Il Paese di Obama” ndr).


Allo stesso modo il viaggio in Europa segnatamente in Germania, Francia, Inghilterra, compiuto prima di entrare nel pieno della campagna elettorale, ha significato l’intenzione di Obama più collaborativa che impositiva, in contrasto nettissimo con la politica del presidente uscente George Bush.
 
Meno liscia, non priva di ostacoli, è invece la politica interna di Obama. Pur giocando con un approccio bipartisan dove a collaborare sono chiamati obamiani e clintoniani insieme, le difficoltà maggiori vengono non tanto dai repubblicani, quanto dalle lobby, alcune delle quali avevano anche corposamente contribuito alla sua stessa elezione.
 
Sono le Assicurazioni e le lobby dell’industria farmaceutica che si oppongono al progetto di Obama per una “copertura sanitaria per tutti”. Sono le lobby dei fabbricanti di armi che si oppongono a una politica di pace, le lobby dei petrolieri che ostacolano la riforma energetica e il ricorso all’energia pulita.
 
Martedi, 3 novembre, due test significativi per la tenuta e la popolarità del presidente nero si hanno con il voto in Virginia e nel New Jersey per la scelta del governatore e con la scelta dei sindaci di 100 città importanti. Per i democratici e quindi per Obama, il test si presenta insidioso. Lo Stato della Virginia che un anno fa votò democratico, oggi è dato per perso.
 
Preoccupa poi il voto in NewJersey dove lo staff della Casa Bianca ha mandato uomini su uomini ad aiutare il democratico Jon Corzine che rischia il posto. Per il presidente la sconfitta in New Jersey sarebbe una figuraccia che confermerebbe la sua diminuita popolarità attualmente scesa di 10 punti.
 
Senza contare che i repubblicani e la Fox News l’interpreterebbero come l’inizio di un precoce declino democratico in vista del voto del 2010 che dovrà rinnovare tutta la Camera e un terzo del Senato.

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