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Fiat: risolleveremo Chrysler

’’Fiat va dove gli altri temono di mettere piede’’ (Paul Betts, editorialista del Financial Times).

Il 21 gennaio scorso, giorno dell’insediamento del neopresidente americano Barack Obama, Fiat e Chrysler hanno firmato un accordo che prevede per la casa torinese l’acquisizione del 35% della compagnia di Detroit.

L’operazione è per Fiat a costo zero dato che non richiede un esborso di liquidità, ma la cessione di tecnologie e Know-how per la costruzione di veicoli a basso impatto ecologico.

L’accordo è però vincolato all’ottenimento per Chrysler di 5 miliardi di dollari di finanziamento a breve termine da parte del Dipartimento del Tesoro statunitense guidato da Timothy Geithner.

Il 5 marzo si è tenuto a Washinton l’incontro tra l’ad Fiat, Sergio Marchionne, e lo staff di Geithner che chiede chiarimenti circa i termini dell’accordo, prima di dare il via libera al finanziamento del governo statunitense.

Al termine dell’incontro Marchionne ha dichiarato: ’rilanceremo e rivitalizzeremo Chrysler, possiamo apportare valore aggiunto’.

Secondo il Financial Times: ’l’apporto della Fiat sul fronte delle auto ecologiche potrebbe favorire l’ok del presidente Obama impegnato a rilanciare le tecnologie verdi’.

Il Wall street journal commenta: ’Fiat non ha obbligo di finanziamento, nel peggiore dei casi non perderebbe soldi, ma tempo ed energie disperatamente necessarie per mantenere il suo business italiano’.

Il bilancio dei precedenti accordi tra Chrysler e altre case automobilistiche, quali Peugeot, Daimler o Mercedes-benz, non sono incoraggianti visto che si sono tutti conclusi con un nulla di fatto: allora Paul Betts, editorialista del Financial Times, si chiede perchè dovrebbe essere diverso per Fiat, e come mai in tempi in cui tutti evitano il mercato americano la casa automobilistica torinese decide di sbarcare negli States.


Queste domande restano per ora in sospeso, ma sul fronte italiano la situazione va peggiorando, tanto che crescono giorno dopo giorno le preoccupazioni per i 5 mila lavoratori dello stabilimento Fiat di Pomigliano, in provincia di Napoli.

E’ del 4 marzo una dichiarazione dello stesso ad Marchionne che lancia l’allarme sulla crisi del sito di Pomigliano, e che gela il sangue a centinaia di lavoratori e alle loro famiglie: ’ Se ritorniamo a un livello di normalità il problema di Pomigliano si gestisce in tempo. Se, invece, il mercato dovesse continuare a scendere a questa velocità, non c’è nessun produttore che in europa e nel mondo, può mantenere la capacità produttiva’. 
 
Le reazioni a queste parole non si sono fatte attendere, l’assessore regionale alle attività produttive, Andrea Cozzolino ha replicato affermando che quello di Pomigliano non è un problema di produttività, ma che si producono veicoli in via di esaurimento e occorre pertanto una nuova mission.

A Pomigliano si produce l’Alfa 159, dal mercato sempre più ristretto, e l’alfa 147 che dopo nove anni è a fine produzione.

I sindacati avvertono: anche se non ci fosse la crisi, lo stabilimento produrrebbe solo 300 vetture al giorno della 159, contro una capacità produttiva di almeno 1000 unità.

Gli incentivi auto si sono rivelati insufficienti e si chiede al governo che a Fiat, in cambio degli aiuti, venga imposto il mantenimento occupazionale, lo stabilimento e un piano di investimenti nella progettazione e produzione di veicoli ecologici.

Sono previste per i prossimi giorni manifestazioni e, per domenica, un volantinaggio allo stadio San Paolo per coinvolgere la tifoseria del napoli nella protesta: cosa a mio avviso molto pericolosa visto i precedenti scontri tra manifestanti e polizia a Pomigliano; è molto facile che se si attuano forme di proteste di questo tipo, che vedono coinvolti ultrà, la situazione possa sfuggire di mano.

Al di là di qualunque analisi o congetture il fatto è che Fiat decide di puntare sul mercato americano dell’auto, in profonda crisi, per la progettazione e lo sviluppo di auto a basso impatto ambientale, e decide di battere in ritirata dal mezzogiorno dove i suoi stabilimenti necessitano delle stesse cure che si pretende di poter fornire oltre oceano.

E’ assai probabile che il costo di eventuali ristrutturazioni aziendali a Pomigliano venga fatto ricadere sugli ammortizzatori sociali, e quindi sui contribuenti, per scongiurare una chiusura di un sito che, ripeto, permette di vivere a 5 mila famiglie: e di questi tempi non ci possiamo permettere altri disoccupati in provincia di Napoli, se vogliamo evitare proteste perenni che possono scadere in atti di violenza.

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