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Come ci vedevano gli americani, Corrida # 52

L’unico racconto pubblicato a puntate sulla rete che è un po’ come la vita: si sa quando e come inizia, ma non si sa mai bene dove vada a finire.

per chi si fosse perso qualcosa, eccovi la puntata precedente

 Non era passato un anno. O forse sì. Forse anche due. Ad ogni modo sembrava un secolo, e senza capire il perchè della voluttà del destino, mi ritrovavo incredulo faccia a faccia con Mauro Candillas detto El Cabesa.
Nemmeno lui era troppo felice di vedermi.
Mi strattonò, e mi cacciò indietro verso la topaia in cui presumibilmente viveva, era incerto, e l’espressione tesa del viso comunicava il suo camminare di pensieri, tra l’istintivo spirito di gruppo e coesione tra migranti e e la permanenza latente di rabbia nei miei confronti.
Io non lo biasimavo, per colpa mia zoppicava ancora, e ,forse, avrebbe zoppicato per sempre.
Rimasi in silenzio, con la testa bassa, come ad aspettare una sua decisione, come a dimostrare debolezza, rammarico.
 
El Cabesa fece forza con la mano sul mio mento e mi costrinse a guardarlo.
 
Lo sai chi sono, vero?
feci cenno di sì reggendo il suo sguardo pieno, dalle pupille profonde
Mauro Cardillas, detto El cabesa, il migliore torero che mai abbia varcato la soglia di una arena. Ho ricevuto più rose io sulla sabbia dell’arena che una qualsiasi regina di Spagna. E tu sai anche perchè mi trovo qui.
feci nuovamente cenno di sì, intenerendo gli occhi, come a dire mi dispiace
Rimase in silenzio, quasi sprezzante, sapeva che ero statunitense di origine e non capiva il perchè della mia messinscena.
Si alzò e fece cenno ad altri di darci da bere e da mangiare.
Se ne andò zoppicando verso la strada.
 
Nel freddo della polverosa topaia, ci sedemmo su di una branda, accanto come a guardarci reciprocamente le spalle, io e Felipe, e masticammo un tozzo di pane duro a testa, sciogliendolo in bocca come ambrosia. A tutt’oggi ricordo quel tozzo di pane come una delle cose più buone mai mangiate, e pur non volendo, mi viene l’acquolina in bocca.
 
guardavo fuori mentre alternavo morsi a sorsate d’acqua, guardavo dalla finestra, sentendo la mia faccia ricoperta di spifferi. La gente passava, lavorava, in preda ad un’isteria produttiva; la calma spagnola mi aveva lasciato nel sangue una idea diversa della vita, aveva affondato nelle mie budella radici differenti, che faticavo a cercare sul mio stesso suolo di origine.
 
Incrociai lo sguardo con una signora elegante che aspettava al bordo della strada. Si scompose, mi guardò indispettita, quasi digrignando i denti, mise a posto il suo scialle e protesse con entrambe le mani la borsetta. Come un gesto istintivo, di chi ha davanti ciò di cui ha più paura.
Ero feccia. Non c’è un termine migliore, feccia.
 
Uno dei miei ospiti si accorse della mia perplessità, si presentò, era italiano. Nonostante un po’ di ruggine riuscii a capire perfettamente ogni sua singola parola. Si esprimeva in una lingua tutta sua, mezza inglese, con un accento molto particolare e marcato, e italiano.
Felipe lo guardava corrugando la fronte, senza capire, ma sforzandosi di leggere sulle labbra una parola conosciuta, e inventarci, magari, una frase.
 
L’italiano mi porse un foglio, a maggiore spiegazione, era un ritaglio di giornale, e parlava di cronaca interna, di immigrazione. Sono andato a ripescare questo foglio, che ho tenuto con me per tutta la vita; era di là, in un vecchio cassone in cui tengo le più disparate memorie di viaggio. Lo ricordo parola per parola, da quante volte l’ho letto, ma per non sbagliare, l’ho tradotto e riscritto parola per parola.
Eccovelo:

"Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura.
Non amano l’’acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina.
Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’’elemosina ma sovente
davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvaticimaperchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali"
 
(Nota: il testo sopra tra virgolette è una relazione dell’ispettorato sull’immigrazione degli italiani negli stati uniti)

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