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Cina altro che "armoniosa", cresce l’instabilità

In due anni il governo cinese ha dovuto far fronte a due importanti rivolte delle minoranze etniche che rappresentano gran parte della popolazione in due province enormi e ricche di risorse come lo Xinjiang e il Tibet. E ha dovuto far ricorso a repressioni sanguinose come non se ne erano viste da vent’anni, da quella di Piazza Tienanmen. Senza considerare la crescita delle proteste che non fanno notizia, quelle contro la corruzione e gli abusi delle autorità o quelle dei lavoratori per le loro condizioni: secondo un rapporto governativo oggi in Cina hanno luogo 100mila proteste l’anno, rispetto alle 80mila di tre anni fa (ogni 4 minuti una protesta a cui prendono parte più di 100 persone).

Questi dati dovrebbero far riflettere gli interlocutori occidentali del governo cinese e indurli a riconsiderare la loro fiducia nella crescita "armoniosa" della Cina. In realtà, dietro la tumultuosa crescita economica degli ultimi anni e la tenuta durante questa crisi globale, l’instabilità in Cina aumenta. E aumenta pericolosamente ai "confini" dell’impero di mezzo, nonostante l’avanzato stato di sinizzazione e la politica di investimenti nello Xinjiang e in Tibet. La mancanza di democrazia e le politiche repressive sono sempre state giustificate dalla leadership cinese con l’esigenza di mantenere la stabilità. Ma ora proprio quelle politiche si dimostrano incapaci di garantire l’ordine e la sicurezza e, al contrario, si rivelano causa di instabilità.

Uno smacco clamoroso alla credibilità dell’ideale di "società armoniosa" e di convivenza fra etnie propagandato da Hu Jintao. Su questo piano il Partito ha fallito, le tensioni tra etnie aumentano anziché diminuire, anche se il mondo sembra avere troppa fiducia nel pugno di ferro di Pechino per accorgersene. Il rientro frettoloso del presidente Hu Jintao dal G8 dell’Aquila è un colpo all’immagine della Cina e testimonia la gravità della situazione, l’inquietudine che probabilmente serpeggia all’interno degli stessi vertici del regime.


Ieri è stato il quarto giorno consecutivo di proteste e violenze. E mentre ci sono segnali che la protesta possa allargarsi ad altre città (dimostrazioni sono segnalate a Kashgar, Yili, Dawan e Tianshan), i vertici locali del partito hanno minacciato la pena di morte e Urumqi è blindata da migliaia di agenti delle forze di sicurezza in assetto anti-sommossa. Ma ciò che è più grave è che gli scontri potrebbero degenerare in un conflitto interetnico tra uiguri e han, che per molti aspetti potrebbe ricordare quelli della ex Jugoslavia. Uiguri che incendiano i negozi nei quartieri han e gruppi di han che danno la caccia agli uiguri, nelle strade e fino nelle loro case, violando il coprifuoco notturno. In centinaia gli uiguri sono scesi di nuovo in strada a Urumqi armati di bastoni, pietre e pugnali, affrontando le forze di polizia, mentre gli han erano asserragliati nei loro quartieri. Per gli uiguri non ci sono da parte dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali le stesse mobilitazioni promosse per i tibetani. Forse perché la loro causa è ancora poco nota, o forse perché sono musulmani?

Accusata dai cinesi di essere «la mente» delle violenze e di separatismo, oggi Rebya Kadeer presidente del Congresso Mondiale degli uiguri, ha affidato al Wall Street Journal la sua versione, spiegando che a scatenare la protesta di questi giorni è stata «l’inazione delle autorità cinesi dopo l’uccisione di alcuni lavoratori uiguri in una fabbrica di giocattoli a Shaoguan, nella provincia meridionale del Guangdong». Ma il malcontento degli uiguri è più in generale dovuto ad «anni di repressione cinese», aggiunge. La dissidente riferisce che secondo fonti uigure all’interno del Turkestan orientale i morti sarebbero 400 e che sarebbero in corso rastrellamenti casa per casa; che la protesta si sta diffondendo ad altre città della regione e che solo nella città di Kashgar sarebbero stati uccisi 100 uiguri.

La repressione di questi giorni sta assumendo «accenti razziali», osserva Kadeer, accusando il governo cinese di «incoraggiare il nazionalismo tra i cinesi di etnia Han in sostituzione della fallita ideologia comunista». Nazionalismo «evidente nella folla di cinesi han che ha attaccato gli uiguri a Shaoguan». La propaganda nazionalista tra i cinesi han «rende molto difficile il cammino davanti a noi», spiega Kadeer sul WSJ. Il Congresso Mondiale degli uiguri, come il Dalai Lama, «sostiene l’introduzione pacifica dell’autodeterminazione e un reale rispetto dei diritti umani e della democrazia. I cinesi di etnia Han e gli uiguri devono instaurare un dialogo basato sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sull’uguaglianza. Ma con le attuali politiche del governo cinese ciò è impossibile». Per riportare la calma nel Turkestan orientale, secondo Kadeer le autorità cinesi dovrebbero prima di tutto «indagare sulle uccisioni nella fabbrica di Shaoguan e portare i responsabili di fronte alla giustizia». Kadeer chiede inoltre l’apertura di «un’inchiesta indipendente e trasparente sui disordini nella città di Urumqi«.

Gli Stati Uniti «possono giocare un ruolo in questo processo», sostiene la leader del Congresso degli uiguri: «Devono condannare le violenze e aprire a Urumqi un consolato che possa servire da faro della libertà in un contesto di feroce repressione e monitorare le violazioni quotidiane dei diritti umani perpetrate contro gli uiguri».

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