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A Reggio Maroni, bufale e petardi. I pm puntano sul clan De Stefano

Mafia – La tensione rimane alta nel capoluogo calabrese, mentre si cerca di analizzare l’escalation innescata dalle ’ndrine, che già in passato hanno dimostrato spregiudicatezza e relazioni pericolose con massoneria deviata e servizi

di Pietro Orsatti su Terra

Falso allarme bomba alla Procura di Reggio Calabria nella giornata dell’arrivo nella città del ministro dell’Interno Roberto Maroni. Si trattava di qualche petardo inesploso rimasto in strada dopo i “botti” di Capodanno. Ma l’allarme fa capire quale sia il livello di tensione che si respira nella città calabrese dopo il “botto”, quello vero, davanti all’ingresso della Procura generale del capoluogo calabrese avvenuto il 3 gennaio scorso. Mentre lo Stato, con l’arrivo di Maroni, cerca di dare un segnale dopo l’intimidazione messa in atto dalle ’ndrine, cominciano a emergere le prime ipotesi di quale clan sia stato a mettere in atto l’azione terroristico-mafiosa.
 
La famiglia reggina De Stefano. Andando a rileggere la storia di questa ’ndrina si scopre che si tratta di una delle più potenti e spregiudicate, anche in termini di rapporti, dell’organizzazione criminale calabrese. Rapporti con la massoneria deviata, intrecci a livello internazionale con i cartelli colombiani e posizione di vertice nel traffico internazionale degli stupefacenti. E poi, aspetto assolutamente da non sottovalutare, un profilo più moderno e meno legato ai vecchi schemi nella gestione “interna”, proprio grazie all’affacciarsi dei boss alle logge deviate. «L’inserimento nella massoneria che, per quanto inquinata, restava pur sempre un’organizzazione molto riservata ed esclusiva – si legge nella relazione Forgione della commissione parlamentare Antimafia – doveva essere limitato a esponenti di vertice della ’ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società». E i De Stefano diventano protagonisti di questa trasformazione. «Nuove regole sostituivano quelle tradizionali – prosegue la relazione -. Personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello Stato, servizi segreti, gruppi eversivi». Tutto concesso, per i De Stefano, «se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori». Inoltre il clan De Stefano è anche quello che mantiene rapporti di amicizia e collaborazione con famiglie delle altre mafie, con i Cursoti di Catania e con i clan camorristici dei Fabbrocini e degli Ascione.

Da qui si potrebbe dedurre che l’intimidazione dello scorso 3 gennaio sia un’ulteriore evoluzione del modus di questo clan e dell’insieme di famiglie che avrebbero acconsentito (altrimenti un fatto del genere non si sarebbe mai potuto organizzare) all’attentato. Un salto di qualità che si inserisce in un quadro di sfida sempre più diretta e violenta con quei settori dello Stato che stanno cercando di bloccarne l’azione e toccandone i beni: magistratura e forze di polizia in primis. Che diventano bersaglio. E questo, non a caso, avviene proprio quando sono sul tavolo oltre 500 richieste di misure cautelari nell’ufficio del gip di Reggio Calabria. Buona parte delle quali sono state fatte negli ultimi mesi dalla Procura reggina, diretta dal procuratore Giuseppe Pignatone, nell’ambito di inchieste sulla ’ndrangheta. E proprio in un momento particolare per la storia della magistratura calabrese che ancora non riesce a superare i nodi irrisolti lasciati dalle inchieste sull’omicidio Fortugno e sulla liquidazione e smembramento delle inchieste della Procura di Catanzaro di due anni fa. Come dimostra anche la vicenda dello “scippo” dell’inchiesta Wind al pm di Crotone Bruni, i cui fascicoli sono stati trasferiti proprio in questi giorni alla Procura di Roma dal Tribunale del riesame.

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