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Visita al circolo della morte: l’ESMA di Buenos Aires

“Bianca è come stordita, sembra non decodificare subito l’ultimo messaggio. Non immagina lontanamente quello che succedeva alle detenute incinte, nel più grande centro clandestino di detenzione dell’Argentina, l’ESMA”.

(tratto da “I passi di Bianca” di Nicola Viceconti - Emersioni)

Articolo di Patrizia Gradito e Nicola Viceconti.

Continua il reportage dedicato all’identità e alla memoria dell’Argentina e dell’Uruguay - paesi vittime di feroci dittature nella decade degli anni ’70 - dopo aver descritto la visita all’ex Centro Clandestino di detenzioneEl Olimpo”. L’articolo di oggi è dedicato all’ex ESMA (Escuela Superior de Mecánica de la Armada) che dal 2004 è stata trasformata in Museo per la memoria dei crimini della dittatura, la promozione e la difesa dei diritti umani. Un luogo oggi simbolo di speranza che, nell’immaginario collettivo, non smette di evocare l’orrore per le brutalità disumane compiute dai militari tra il 1976 ed il 1983. In questa struttura sono passati più di 5.000 detenuti, di cui solo 500 sono sopravvissuti, più del 90% scomparsi (Desaparecidos).

La Visita

 

 

Dopo aver percorso i diversi edifici che facevano parte del plesso dell’ESMA al tempo adibiti a aule di formazione, alloggi, spazi ricreativi e mensa degli allievi che frequentavano la Scuola della Marina, la guida ci conduce all’edificio più esterno, sul lato nord di Avenida Libertador, sede dell’ex Circolo degli ufficiali.Lungo il vialetto incontriamo una garitta da dove la guardia di turno, dopo aver effettuato i controlli, autorizzava il passaggio ai veicoli facendo scendere una grossa catena sul terreno per consentirne il transito. Un solco sull’asfalto è ciò che resta oggi di quelle operazioni di controllo. Proprio davanti a quella garitta passavano i furgoni neri, le Ford Falcon verdi, i camion con i detenuti appena sequestrati. I pochi sopravvissuti hanno più volte dichiarato nelle loro testimonianze di conservare in modo indelebile nella mente il rumore delle ruote del mezzo su quella catena. Era il macabro rumore che segnava l’ingresso nell’inferno della Marina militare argentina.

Ci avviciniamo alla palazzina di tre piani, circondata dagli alberi, quasi al riparo dal traffico dell’avenida, poco distante. Sulla facciata un pannello trasparente espone volti di alcuni dei tanti giovani che sono passati da lì senza fare più ritorno, in quello che è stato il loro luogo di tortura, prima di essere trascinati inesorabilmente al destino crudele dei famigerati “voli della morte”. Entriamo in silenzio, camminando su un pavimento di parquet di un grande salone. Altre sale vuote si susseguono, conservano lo stile tipico degli anni Settanta. Se non fosse per i volti dei ragazzi scomparsi raffigurati all’ingresso e per la presenza di pannelli con spiegazioni puntuali in ogni angolo dell’edificio, si fa perfino fatica a immaginare l’orrore perpetrato in quel luogo. Intorno regna una sensazione di “vuoto”. Una sensazione incomprensibile.

È la guida a offrirci la chiave interpretativa per comprendere la funzione e la storia dell’ESMA. Lo fa invitandoci a osservare alcune modifiche della struttura, come per esempio la realizzazione di pareti divisorie, che i militari eressero in fretta e furia nel 1979, in occasione della visita della Commissione interamericana per i diritti umani, pensando così di cancellare le prove dello scempio.

Un’operazione che prevedeva contestualmente il trasferimento dei detenuti presenti in quel momento all’ESMA, in un’isola (denominata El Silenzio) di proprietà della Chiesa Cattolica, nei pressi di Tigre, alla foce del Rio de La Plata. Su tale vicenda, e sul legame tra la Chiesa e la dittatura argentina, si segnala il libro di Horacio Verbitsky, L’isola del silenzio, il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina.

La visita procede passando sul retro dell’edificio per scendere nel sotterraneo attraverso una rampa di scale. Anche qui ci troviamo in un ambiente che negli anni ha subito diverse trasformazioni. Ci viene spiegato che da quello stanzone i militari organizzavano los “Vuelos” dei detenuti che venivano trasladados, ossia “trasferiti”, termine usato dagli aguzzini per indicarne in realtà la loro eliminazione. Venivano raggruppati una trentina alla volta e dopo aver somministrato loro una iniezione di pentothal, che aveva lo scopo di addormentarli senza ucciderli, venivano spogliati, caricati su camion, trasportati all’aeroporto militare Jorge Newbury e imbarcati sugli aerei. I voli prevedevano il lancio delle vittime nell’oceano quando erano ancora in stato di incoscienza. Ci assale una profonda tristezza nel renderci conto che la rampa di scale che avevamo sceso accompagnati dalla guida è la stessa che i detenuti erano costretti a percorrere, per essere traslati. Le prove inconfutabili dei voli della morte, complete di dettagli sulle la metodologia di sterminio, sono state minuziosamente svelate nel 1995, al citato giornalista Horacio Verbitsky, dall’ex repressore dell’ESMA Adolfo Scilingo (cfr. il Volo)

Altri settori previsti nella visita dell’ex Centro clandestino di detenzione sono la capucha e la capuchita (mansarda e sottotetto). Per arrivarci abbiamo salito due rampe di scale del primo e secondo piano dov’erano gli alloggi per gli ufficiali. Anche qui un particolare ci ha catapultato nel supplizio vissuto dai cinquemila detenuti desaparecidos: il marmo dei gradini è scheggiato in più punti. Quei segni sulla pietra dura sono la traccia dello sbattere delle catene dei detenuti quando venivano traferiti dalla Capucha al sotano del Centro clandestino per sottoporli alle sessioni di tortura. Le condizioni di vita dei detenuti nella capucha e capuchita erano disumane. Venivano tenuti incappucciati giorno e notte, quasi sempre ammanettati, costretti a vivere in spazi ristretti, all’incirca di due metri di lunghezza e uno di larghezza. Impossibilitati a comunicare tra loro, dovevano restare sistemati con la testa rivolta verso l’interno dello stanzone in modo da facilitare alle guardie il controllo attraverso il corridoio centrale. In un’ala dello stesso piano ci soffermiamo con un senso di sgomento all’ingresso di due stanzette. Ci sentiamo dire che qui venivano fatte partorire le detenute incinte. Era qui che il nascituro veniva strappato loro come bottino di guerra. Una scritta anticipa la nostra domanda: “Com’era possibile che nascevano bambini in questo luogo?”

ESMA

Situata nella zona nord della città di Buenos Aires, nel quartiere Núñez, al civico 8200 dell’elegante Avenida del Libertador, l’ESMA è stato il più grande centro di detenzione clandestina argentino, chiamato in codice Selenio. Dipendeva direttamente dal Capo di Stato Maggiore della Marina, Emilio Eduardo Massera. La gestione era affidata al Gruppo 3.2.2, organo repressivo destinato alla capitale, era diretto dal contrammiraglio Rubén Jacinto Chamorro e dal capitano Jorge Eduardo Acosta (detto el Tigre). Qui molti ufficiali come il crudele Alfredo Astiz e Adolfo Scilingo agirono da carnefici. Acosta ed Astiz, insieme ad altri tre ufficiali, Héctor Febres, Jorge Vanek e Jorge Raúl Vildoza, sono stati condannati il 14 marzo 2007 dalla seconda sezione della Corte di Assise di Roma, per i desaparecidos di origine italiana, Ángela María Aieta, Giovanni Pergoraro e Susanna Pegoraro. Alfredo Astiz, noto con il soprannome di Angelo biondo, riuscì a infiltrarsi nell'associazione Madres de Plaza de Mayo per spiare il loro operato al fine di organizzare il sequestro e l'uccisione delle tre fondatrici, Esther Ballestrino, Azucena Villaflor de Vincenzi e Mary Ponce. All'ESMA operava, in qualità di cappellano militare, padre Alberto Ángel Zanchetta, che era perfettamente a conoscenza di quello che accadeva all'interno della struttura e che al ritorno di un Volo della morte rincuorava gli ufficiali facendo appello alla parabola del grano e dell'erba cattiva.

 

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