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Vesuvio: il grande rogo e la diossina

In un territorio dove vige la legalità difficilmente si appiccano i detestabili incendi...

Ciò che è successo sul Vesuvio in termini di incendi è un esempio concreto di cosa significhi la disorganizzazione nella gestione delle emergenze. Fiamme che già l’anno scorso avvilupparono il vulcano più famoso del mondo, senza per questo insegnare nulla, ma proprio nulla a coloro che pur rivestendo delle cariche importanti nella gestione amministrativa e operativa del territorio, poco o niente hanno fatto per correre ai ripari dal subdolo pericolo fuoco, né tantomeno hanno abbracciato la prevenzione come strada maestra per fronteggiare le catastrofi ambientali di matrice antropica.

Il fenomeno dell’autocombustione non ci appartiene perché un foglio di carta per bruciare ha bisogno di 230°C. La legna necessita di almeno 300°C. Per quanto rovente possa essere quest’estate senza piogge, ancora non siamo arrivati alle temperature di oltre 400°C. che si registrano sulla superficie del pianeta Venere. Quindi, l’aiutino per appiccare incendi giocoforza vede la preponderante e malefica mano dell’uomo. 

Per agire di prevenzione su di una zona che s’intende proteggere dal rischio incendio boschivo, come dovrebbe essere quella di un parco nazionale come il Vesuvio, oggi definibile parco metropolitano o cittadino per la profonda conurbazione che lo circonda, innanzitutto è necessario dotarsi di strumenti a rapida rilevazione del fumo o del calore. Parliamo quindi di telecamere che operano sulla frequenza del visibile e sugli infrarossi.

Se non si vogliono adottare sistemi di telerilevamento, occorre sostituire le telecamere con l’occhio umano, cioè affidare compiti di vigilanza a un certo numero di addetti armati di binocolo e telefono o radio, magari posizionati su torrette ubicate in luoghi strategici del territorio.

Un altro sistema ancora, che potremmo definirlo dinamico e interattivo, consiste nell’impiegare squadre antincendio che effettuino servizio di ronda non cadenzati sui sentieri da proteggere, utilizzando mezzi fuoristrada, tipo jeep o pickup attrezzati per estinguere eventuali principi d’incendio sul nascere.

Quale di questi sistemi sia stato applicato all’interno del Parco Nazionale del Vesuvio non lo sappiamo, ma la scoperta di pompose ville abusive costruite nel perimetro protetto, così come lo scarico di rifiuti ed elettrodomestici e ancora di calcinacci disseminati in ogni dove, non depongono a favore di una efficace opera di controllo del territorio. E se non si controlla il territorio, vandalizzano o rubano le telecamere semmai s’installano, oppure rapinano le vedette alla stregua di alcuni episodi che hanno visto vittime gli agricoltori della zona.

I motivi per i quali l’arcinoto vulcano sia diventato una torcia insieme ai versanti acclivi del Monte Somma possono essere veramente tanti. Generalmente la siccità e quindi il fogliame e il sottobosco secco, sono terreno fertile per l’azione colposa dell’uomo. La cicca buttata via dall’auto in corsa o durante un’escursione a piedi, può essere innesco per le fronde rinsecchite e minute. C’è anche chi appicca furtivamente il fuoco ai cumuli di rifiuti resi maleodoranti dalla calura estiva, senza rendersi conto che le fiamme possono dilagare attraverso le faville portate via dal vento, oppure assumere sul posto stesso una virulenza tale da diventare incontrollabili.

C’è poi la parte spiccatamente dolosa degli incendi, che potrebbe essere legata all’industria dell’antincendio e della riforestazione. Un’ipotesi raccapricciante per la verità, che necessita di prove precise e documentabili. In altre parti si appicca la boscaglia per dispetto; certe volte invece, taluni danno fuoco alla macchia improduttiva per generare pascolo o altre piante che danno frutti monetizzabili, o anche per favorire la crescita degli asparagi secondo una convinzione piuttosto diffusa tra i cercatori delle appetitose liliaceae.

E ancora c’è chi dà fuoco alla macchia per rendere una determinata zona inedificabile per assicurarsi il panorama, oppure per esprimere un malcontento per la mancata concessione del condono edilizio. Una sanatoria in realtà che in questi comprensori soggetti al pericolo vulcanico dovrebbe essere tecnicamente inapplicabile, perché lo Stato non può, ovvero non potrebbe cadere nel ridicolo sanando residenze abusive in una zona (rossa), dallo stesso Stato definita ad alto rischio vulcanico per la possibilità di essere invasa dalle micidiali colate piroclastiche. Altri dissensi potrebbero provenire dalle operazioni amministrative di confisca delle case abusive da acquisire poi al patrimonio disponibile dello Stato. Una proposta regionale (Campania) impugnata dal governo, prevede infatti di risolvere i problemi di sanatoria togliendo amministrativamente la proprietà all’abusivo facendolo così diventare affittuario pur se dimorante su un cratere avventizio fumante…

L’anno scorso i piromani hanno attaccato prevalentemente il territorio di Terzigno: è un indizio. Questa località è nota per l’abusivismo edilizio e per la discarica ex cava Sari ubicata all’interno del Parco Nazionale del Vesuvio ai confini con Boscoreale. Alcuni anni fa ci fu una querelle violenta tra le istituzioni capeggiate da Bertolaso e la popolazione che espresse tutto il suo dissenso alla spregiudicata iniziativa governativa. Tutto nacque a causa di una improvvida decisione di un amministratore di rango terzignese, che consentì o comunque favorì o comunque non si oppose alla realizzazione di una megadiscarica sui territori di Terzigno ricadenti nel perimetro del parco nazionale Vesuvio. Un invaso che all’inizio emanava un olezzo che a definire rivoltante era puro eufemismo. Per mitigare rivolta e atti vandalici, il commissario ai rifiuti Bertolaso fu costretto ad usare pugno duro ma soprattutto odorizzanti aspersi a larga mano e tecniche rapide di ricoprimento dei rifiuti su cui volavano a cerchio paffuti gabbiani.

Riempita la discarica con un milione di metri cubi di spazzatura, il metano prodotto dalla decomposizione dei rifiuti viene bruciato in un contiguo impianto di termovalorizzazione (biogas). Un unicum che non aveva e forse ancora non ha, un piano di emergenza per fronteggiare una possibile fase di allarme vulcanico.

Intanto hanno notato che il registro delle malattie oncologiche del comprensorio segna un incalzare delle patologie incurabili subito associate dalla popolazione, a torto o a ragione, ai veleni accumulati nei terreni e nell’aria. Ogni famiglia dicono, annovera un caso letale alla stregua delle più classiche epidemie influenzali…

Non è difficile ipotizzare che chi ha dovuto registrare nel proprio nucleo familiare un lutto dovuto alla vicinanza col sito di stoccaggio rifiuti, che in realtà si chiama ahimè e nella sua interezza Vesuvio, possa aver coltivato una sorta di desiderio di vendetta o di giustizia estrinsecata poi con la volontà di bruciare quel male assoluto, identificato nelle zone pedemontane dove riposano bare di rifiuti interrate in fosse abilmente preparate dagli escavatori e poi mimetizzate con lo stesso lapillo vulcanico e, quindi, introvabili.

Il fuoco è anche un elemento di stizza verso un Vesuvio che per mille ettari è circoscritto dalle reti che vietano il transito pedonale all’interno dell’area della riserva Tirone Alto Vesuvio. Un’oasi naturalistica di protezione forestale che sopravvive all’interno dei 7000 ettari del parco nazionale Vesuvio. Una zona strategica per la biodiversità, protetta e inaccessibile se non dai bus turistici a trazione integrale che si muovono accedendo dalla strada Matrone di Boscotrecase, grazie a potenti motori diesel. Un connubio che prende a calci in faccia qualsiasi trattato protezionistico della natura… I sussulti delle potenti carrozzerie rinforzate infatti, fanno addirittura impazzire i sismografi dell’Osservatorio Vesuviano posti lungo il versante meridionale del vulcano.

Un po’ di anni fa, all’ennesimo incendio localizzato a Boscotrecase (Vesuvio), ci trovammo quasi a ridosso del focolaio avendo così la possibilità di calcolare i metri quadrati di vegetazione in fiamme e il numero di lanci effettuati dai Canadair in azione. Orientativamente, per spegnere un incendio ad oggetto una vegetazione folta e di media altezza e alberata, calcolammo con grande approssimazione che occorrevano circa 175 litri d’acqua a metro quadrato. Quando la superficie interessata dalle fiamme comprende combustibile (alberi e macchia mediterranea) che si erge in verticale, occorre considerare la superficie arborea come una superficie particolarmente ondulata… Bisogna anche considerare come variante peggiorativa dell’azione antincendio, che l’acqua sui suoli vulcanici non ristagna e non scivola: bensì sprofonda letteralmente. Essendo la legna un buon isolante poi, spesso si riaccende per migrazione del calore in superficie, esattamente come succede per i pneumatici.

Per poter spegnere un incendio su zone rocciose e miste e acclivi come quelle vesuviane, occorrono certamente i mezzi aerei che portano l’acqua lì dove non ci sono risorse di questo genere, e sul Vesuvio non ci sono… . Purtuttavia è anche necessaria un’opera di bonifica terrestre per scongiurare le riaccensioni. Occorrono strategie interventistiche quindi, avendo cura di aspettare e fronteggiare il fuoco su un luogo magari meno acclive oppure dove la vegetazione è meno densa e bassa, per dare il colpo di grazia alle fiamme già abbattute dai lanci effettuati da aerei ed elicotteri. A terra si opera con atomizzatori spallabili o nebulizzatori e pale o decespugliatori e motoseghe per creare ove necessario una zona d’attesa spoglia. 

Gli aerei Canadair (CL-415), hanno una capacità di carico di circa 5000 litri d’acqua che carpiscono scivolando con la pancia sulle distese marine o di laghi abbastanza ampi e larghi da consentire il successivo decollo a pieno carico dell’aeromobile.

Gli elicotteri possono garantire lanci mirati, ma il secchione agganciato al gancio baricentrico, una sorta di ombrello capovolto, riesce a contenere dai 500 ai 1000 litri d’acqua. Non molto, ma se i lanci sono ravvicinati l’azione antincendio è abbastanza efficace e precisa.

Gli Eriksson s64f sono anch’essi elicotteri (sembrano ragni), ma con una grande capacità di carico, che nell’antincendio boschivo significa poter aspirare e trasportare e poi sganciare sulle fiamme ben 10.000 litri d’acqua. Gli elicotteri però, occorre ricordarlo, hanno ingenti costi d’esercizio.

Se il fronte delle fiamme rasenta invece una sede stradale, i camion antincendio soprattutto a trazione integrale, sono insostituibili per intervenire con i naspi e le manichette anche se l’incendio è lontano alcune centinaia di metri di distanza dal veicolo.

In tutti i casi, la possibilità di approvvigionamento del prezioso liquido (vasche o cisterne o pozzi) è alla base del sistema antincendio. Lo stesso dicasi dei viali tagliafuoco e dei sentieri carrabili utilizzabili dai fuoristrada. Così come le vedette antincendio e le telecamere e i divieti e i controlli, sono tutti elementi che possono essere messi in campo attraverso un’attenta pianificazione preventiva per la lotta agli incendi boschivi. I tavoli strategici non si possono organizzare quando il fuoco sul Vesuvio è in una fase di disastro ambientale… Non si possono stipulare convenzioni con i Vigili del Fuoco alcuni giorni dopo l’immane rogo.

La condizione di proliferazione degli incendi boschivi ancora in una fase acuta nel meridione d’Italia, necessita di un sistema di ronde e di vigilanza e una organizzazione antincendio ben lubrificata, almeno fino a quando le piogge autunnali non renderanno poco efficace l’azione dei vandali incendiari, tanto sul Vesuvio quanto su altri rilievi e colline che punteggiano il nostro panorama mediterraneo. 

Per concludere occorre prendere coscienza che sul famoso vulcano c’è bisogno che lo Stato faccia sentire la sua presenza, perché è un territorio appetibile tanto dal business quanto dal malaffare. Il Ministro Galletti incominci ad approfondire le varie anime controverse che esistono negli oltre 7000 ettari di parco nazionale del Vesuvio, il cui cuore vegetale è caratterizzato dai circa 1000 ettari di riserva naturale forestale di protezione chiamata Tirone Alto Vesuvio diventata terra di transito per i bus turistici. Si verifichino tutte le autorizzazioni di servizi vari e di ristoro e di trasporto per ripulire il vulcano più famoso del mondo da una strana patina che sembra avvolgerlo… ripulirlo anche materialmente dall’immondizia aiuterebbe pure la repressione degli incendi, dando così decoro a un vulcano che nella sua corona di base porta i segni del passaggio del tempo e dei popoli, ad iniziare dall’età del bronzo come testimoniano orme di piedi in fuga impresse sugli strati di cenere vulcanica databili a 3800 anni fa.

Si verifichi che sul Vesuvio non esistano spazi di extraterritorialità, che non sia una terra di conquista e di abusi e soprusi, perché il terrorismo ambientale perpetrato con gli incendi, potrebbe anche essere una illegale pratica per richiamare l’attenzione istituzionale su di un territorio mestamente lasciato a se stesso, cannibalizzato dalla politica dell’abbandono e dei mancati controlli e delle discariche che ogni tanto emergono come reperti ripugnanti dell’indicibile.

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