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Venezuela | Ma che strano socialismo...

Avevo già segnalato, in Una precisazione necessaria quello che in Venezuela appare particolarmente grave a chi fa la fame: mentre si blocca l’importazione di beni e di servizi, si fanno regali a multinazionali come Goldman Sachs. Ne aveva parlato, ovviamente senza scandalizzarsi, il quotidiano della Confindustria. Vedi qui.

Mi era parsa una notizia utile per capire la reale portata dello scontro in atto nel ceto politico venezuelano, sia perché la maggioranza degli esponenti della MUD, che viene abitualmente presentata esclusivamente come una creatura dell’imperialismo statunitense, in realtà sono irritatissimi per questi affari realizzati tra importanti società nordamericane e il governo Maduro (che ha bisogno di dollari per pagare gli interessi sul debito, ma anche per distribuire qualche sussidio ai municipi chavisti più inquieti).

Ma nessuno degli apologeti del Venezuela attuale, ha ripreso la notizia: al massimo a Maduro, come concessione a chi lo critica da sinistra, si mette in conto di non aver portato avanti completamente il programma di Chávez, o di non essere del tutto estraneo alla corruzione. Ma sono cose da niente se si pensa che l’alternativa a Maduro sarebbe il trionfo del “blocco nazifascista” finanziato e protetto dagli Stati Uniti.

Ma è davvero così? In realtà la MUD contiene di tutto: i residui dei vecchi partiti borghesi socialdemocratico (AD) e cristiano sociale (COPEI), almeno tre gruppi di ex guerriglieri castristi, e svariati gruppi politici nazionali e locali, tra entrate e uscite dovrebbero essere 28, di cui nessuno fa riferimento al fascismo. Molti dei suoi esponenti sono conservatori e anche reazionari, di un anticomunismo accanito alimentato dal timore ossessivo di finire come Cuba, specialmente quando l’intesa tra Chávez e i fratelli Castro sembrava potesse portare a una federazione tra i due paesi, e accanto alle utili misiones sanitarie o culturali, si intravedevano non pochi “consulenti per la sicurezza”. Tra gli equivoci maggiori, le troppe modifiche alla sua stessa costituzione proposte da Chávez nel 2007, nell’unica votazione che non a caso egli ha perso. Molte modifiche erano ragionevoli o positive anche se destinate a restare sulla carta, come ad esempio un’ulteriore riduzione della settimana lavorativa, in sé ottima, ma inficiata dall’essere già largamente inapplicata, come tutto l’avanzatissimo Codice del Lavoro: per questo l’attenzione delle opposizioni (che grazie a questo ottennero il loro primo successo dall’avvento di Chávez) si concentrò sulla proposta di eliminare qualsiasi limitazione alla rielezione del presidente, che venne interpretata come un passo verso la riproduzione del “modello cubano” di presidenza a vita, magari ereditaria... Ma ritornerò su quell’anno di svolta, anche riproponendo alcuni scritti di alcuni compagni che oggi perdonano tutto a Maduro e in quel periodo erano più severi di me anche nei confronti dello stesso Chávez, su cui ero più cauto, e comunque sempre rispettoso.

Ma torniamo ai rapporti tra il chavismo ufficiale e le multinazionali di paesi imperialisti, USA inclusi. Frugando un po’ nella stampa finanziaria specializzata in consigli agli investitori, si scopre facilmente che l’intesa con Goldman Sachs non era un caso isolato e inspiegabile. Ad esempio su http://www.ilpost.it/ si segnala, senza darvi troppo peso, la notizia che il Venezuela importa petrolio dagli Stati Uniti. Non mi scandalizzo, c’è una buona ragione: il petrolio del Venezuela è in parte pesante, e in parte pesantissimo, e il petrolio più leggero proveniente dagli Stati Uniti è indispensabile per ridurre i costi della raffinazione attraverso una miscelazione. Ma mi sorprendo che quelli che giustificano la necessità di “baciare il rospo (Maduro)” perché sarebbe sotto l’attacco diretto dell’imperialismo statunitense che organizzerebbe da tempo un golpe strisciante, non si domandino nulla sul significato di questi commerci che se durano da anni, è perché sono convenienti ad entrambi i governi. Inutile dire che se le grida scomposte del rozzo Trump puntassero a qualcosa in più di un uso propagandistico interno, la prima cosa da fare sarebbe bloccare acquisti e forniture di petrolio al “nemico”. Vedi la fonte qui.

Un caso eccezionale? No, anche l’organo della propaganda chavista in tutto il continente, Resumen latinoamericano, diretto dall’argentino ex Montonero Carlos Aznárez, ammette che il “golpe” tanto paventato non ha toccato le relazioni tra il Venezuela e gli Stati Uniti, tanto è vero che può elencare alcune cifre: ancor oggi, nonostante una seria flessione della produzione, il Venezuela viene subito dopo il Canada e l’Arabia Saudita come fornitore degli USA di petrolio grezzo, ma è anche importante per le sue nove raffinerie dedicate al mercato statunitense, che hanno una capacità di raffinazione di oltre un milione di barili annui. Rispondendo alle voci di possibili tagli voluti da Trump (in realtà usati soprattutto dalla propaganda di Maduro) Resumen ricorda che questi impianti danno lavoro a 5.500 lavoratori statunitensi con famiglia, e che quindi eventuali tagli colpirebbero le promesse di “lavoro per gli americani” fatte da Trump in campagna elettorale. Vedi qui.

D’altra parte questi rapporti (tenuti sempre nell’ombra dalla propaganda “bolivariana”) datano da molti anni, e hanno provocato l’ira della destra. Si veda ad esempio qui la dura condanna di Gustavo Coronel, geologo ed ex dirigente di PDVSA in volontario esilio negli Stati Uniti nei confronti di Alí Moshiri, presidente di Chevron Africa e America Latina, rimproverato per le sue strette relazioni con Chávez, a cui chiedeva aiuto contro un altro paese con governo “progressista”, l’Ecuador.

Ma di documentazione “da sinistra” sulle malefatte del governo Maduro se ne trovano moltissime soprattutto sugli organi anarchici locali o di altri paesi, come ad esempio el Libertario che smonta pezzo per pezzo la propaganda di Maduro che sceglie volta a volta un capro espiatorio per tacitare chi denuncia la corruzione (complici dei “fascisti” anche loro?). Interessante l’articolo sulle Empresas de maletín, cioè le imprese fittizie che dal governo si fanno dare dollari a tasso agevolato che finisce nelle speculazioni, perché hanno utili agganci, anche se non hanno sede o un’attività produttiva, non hanno altro che il maletín (la cartella da manager) che serve per simulare una ditta di import export).

Mi scuso se la maggior parte dei link hanno rinviato finora a scritti in spagnolo, e per riparare passo ora all’Italia, il cui capitalismo ha ugualmente parecchi interessi in Venezuela.

Parto da un recentissimo commento de “il Sole 24 ore” sul peggioramento della situazione economica in Venezuela. Non c’è un’ombra di giudizio morale, di condanna. Come fanno sempre, “Lorsignori” badano solo al rendimento. E non c’è traccia della famigerata “guerra economica”, gli acquisti e le vendite sono condizionate, come in tutte le borse, da voci, speranze di profitti, allarmi per qualche fattore interno nuovo. È utile leggerlo.

Un’articolo di Milano Finanza, poi, essendo brevissimo, mi consente di riprodurlo integralmente:

MILANO (MF-DJ)—I soldi scarseggiano, l'inflazione galoppa a tre cifre, i debiti sono lievitati a 20 miliardi di dollari, e allora Pdvsa sta giocando tutte le sue carte per convincere le oil company occidentali a non voltare le spalle al Venezuela. Nonostante la crisi drammatica che sta attraversando, il Paese resta il primo al mondo per le riserve petrolifere e l'ottavo per quelle di gas. L'ultima proposta del colosso petrolifero venezuelano, spiega MF, e' indirizzata ai ceo delle principali compagnie partner, Eni compresa, ed e' maturata a margine del 22mo congresso mondiale del Petrolio, la settimana scorsa a Istanbul, dove Pdvsa ha presentato il suo business plan al 2022. Lo scopo e' soprattutto quello di allontanare lo spettro di una nazionalizzazione delle empresas mixtas, come a Caracas chiamano le joint venture tra i gruppi petroliferi esteri e Pdvsa e le sue controllate. La voce sta circolando da qualche tempo e non contribuisce a distendere il clima, cosi' come forse non ha aiutato aver ribattezzato la Faja dell'Orinoco, dove sono concentrati alcuni dei maggiori giacimenti del Paese, col nome di Hugo Chavez, lo scomparso presidente che ha nazionalizzato l'industria petrolifera annullando unilateralmente i contratti di concessione con le oil company. red/lab (fine) MF-DJ NEWS

L’autore dell’articolo è bene informato sul presente, un po’ meno sul passato: la “nazionalizzazione dell’industria petrolifera” non era così spaventosa, perché si concludeva, a parte alcuni casi di irrigidimento della compagnia, con un amichevole accordo per costituire un’impresa mista. Se lo scontro era avvenuto per qualche trasgressione delle regole, la nuova compagnia otteneva comunque una nuova concessione in un’altra zona del paese. Pagava qualcosa, ma evidentemente aveva i margini per trovare convenienti gli affari col Venezuela...

Sullo stesso argomento anche https://marketinsight.it/2017/07/18/eni-pdvsa-intende-rilanciare-le-attivita-venezuela/

Anche “la Voce degli Italiani” di Caracas, organo tradizionalmente ostile a Chávez e vicino al PD, oltre che all’ENI, tranquillizza i lettori, in genere benestanti, smentendo le voci di possibili nazionalizzazioni, vedi qui. Ma ha il vantaggio di poter portare come testimone l’ad dell’ENI Claudio Descalzi, che rassicura la redazione della “Voce”: anche se oggi il Venezuela “attraversa una crisi di proporzioni dantesche e se quotidianamente i venezuelani protestano contro il governo del presidente della Repubblica Nicolás Maduro” con un bilancio di morti preoccupante (sono parole dell’intervistatore), l’ENI “non intende lasciare il Venezuela”. “Il nostro –ha spiegato – è un investimento a lungo termine. Se dovessimo abbandonare tutti i paesi in cui c’è una situazione difficile – ha aggiunto – lasceremmo spazio ai nostri concorrenti”. Ma questa è la logica di tanti capitalisti italiani che criticano il governo venezuelano, ma fanno ottimi affari grazie alla scarsità dei controlli. Certo, è per analoghe ragioni che Scaroni rimane volentieri in Venezuela. D’altra parte ha “mediato” anche con al Sissi, per assicurare il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo senza che si facesse il minimo di luce sul caso di Giulio Regeni. Sa bene quanto è grande il profitto garantito in quei paesi che hanno un governo “ragionevole”. Il giornalista della “Voce” non era del tutto convinto della fiducia di Scaroni, e ha ricordato che “nell’ultimo ventennio non sono state tutte rose e fiori tra il governo e l’azienda petrolifera italiana. Ad esempio, nel 2006, durante il governo dell’estinto presidente Chávez, il Venezuela espropriò il giacimento di Dacion, annullando un contratto di servizio con la compagnia nazionale Pdvsa”. Ma d’altra parte – aggiunge - anche se “furono mesi di polemica tra la holding italiana e il governo venezuelano” dopo un po’ di tempo “Eni raggiunse un accordo risolutorio, incassando dal Venezuela una compensazione in contanti definita «in linea con il valore contabile dell’asset»”. Contenti loro, chi si può preoccupare del costo di questi accordi per la popolazione?

Ma per chiudere questa piccola rassegna ho scelto una nota che sarebbe divertente se non suscitasse orrore per l’ipocrisia dei nostri governanti: mentre denunciano il “dittatore” Maduro, gli vendono armi per dotare la polizia venezuelana. Lo ha scoperto l’infaticabile Giorgio Beretta, dell’Osservatorio sulle armi, che ha scritto una nota che è stata ripresa da Beppe Grillo, a cui si deve forse il commento finale. È un episodio minore, ma sintomatico di un clima, che non mi sembra proprio di “preparazione internazionale” di un “golpe” un po’ più serio di quelli denunciati periodicamente da Maduro e Cabello in occasione di qualche bravata di un poliziotto attore o di un sergente degradato. Vedi qui.

Naturalmente questi legami smontano la retorica “antimperialista” di Maduro, ma non garantiscono con certezza che non ci sarà (o non sia già in preparazione con un pezzetto più disponibile della MUD) una qualche più concreta minaccia statunitense, dato anche l’ignorante irresponsabile che siede alla Casa Bianca e se ne infischia degli ammonimenti di prudenza che gli arrivano anche da esponenti autorevoli del partito repubblicano. Quando gli Stati Uniti hanno deciso di intervenire in un paese, lo hanno fatto non perché li minacciava ma perché era in crisi acuta (vedi Iraq, Afghanistan e tanti altri casi minori, dal Libano alla Somalia), mentre sono stati prudentissimi con chi in un modo o nell’altro aveva l’appoggio della popolazione: si pensi all’Iran e oggi alla Corea del Nord, e soprattutto alla straordinaria resistenza cubana nei primi anni dopo il crollo dell’URSS e del suo sistema.

Ma se gli Stati Uniti finiranno per essere tentati dalla presunta facilità di un intervento nel Venezuela, sarà anche perché hanno le loro fonti di informazione sul reale stato d’animo della popolazione venezuelana, e sulla dimensione del malcontento anche di settori chavisti nei confronti di Maduro per le privazioni a cui sono sottoposti a causa del malgoverno. Ma gli USA pagherebbero caro il loro errore, perché una grande maggioranza della popolazione del Venezuela e dell’intero continente non tollererebbe un intervento yankee. E ci avrebbe al suo fianco. (a.m.)

(Foto: Ruurmo/Flickr)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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