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Una Riforma del Senato necessaria ed improrogabile

In Italia, il dibattito sulle riforme istituzionali è iniziato più di trent’anni fa. Non casualmente questo dibattito prese avvio subito dopo la morte degli ultimi tre capi dell’antifascismo (Ugo La Malfa, Pietro Nenni e Giorgio Amendola) che, il 9 settembre 1943, parteciparono alla prima riunione del Comitato di Liberazione Nazionale.

Come è noto, l’assetto istituzionale della Repubblica Italiana venne delineato dall’Assemblea Costituente eletta nel 1946 e fu fortemente condizionato dalla paura del tiranno. Molti dei costituenti, infatti, erano stati perseguitati dal tiranno fascista giustiziato il 28 aprile 1945 e temevano che la redigenda Costituzione potesse generare un altro regime autoritario. Questo timore li indusse ad optare per un sistema parlamentare costituito da due Camere con identici poteri e funzioni, elette con una legge elettorale proporzionale e sovraordinate ad un governo debolissimo. La scelta fatta dai costituenti fu apprezzata dai generali inglesi ed americani che sovrintesero alla stesura della Carta Costituzionale, perché alle potenze vincitrici faceva comodo un’Italia con un governo debole e, di conseguenza, poco autorevole in politica estera.

Il poco governabile sistema istituzionale concepito nel 1946-47 poteva reggersi e si è retto solo grazie al legame di solidarietà tra i capi dell’antifascismo, affratellati dalle privazioni e dalle vessazioni patite durante la ventennale dittatura. La loro scomparsa fece emergere, nei primi anni Ottanta, tutta la fragilità dell’impianto costituzionale italiano. La legge elettorale proporzionale, il bicameralismo paritario e la debolezza dei governi hanno generato un sistema politico che decide POCO e TARDI. L’assunzione di una decisione politica si è praticamente trasformata nell’accidentato attraversamento di un campo minato da veti, ricatti e rappresaglie.

La razionalizzazione del processo decisionale non può non passare dall’abolizione di una delle due Camere, dal rafforzamento dell’esecutivo e dall’elezione dei parlamentari con il metodo maggioritario. A queste conclusioni giunge chiunque confronti il funzionamento della nostra democrazia con quello delle più evolute democrazie occidentali.

Il fronte su cui sono stati fatti notevoli progressi è quello dell’adozione di un sistema elettorale maggioritario. L’Italicum, approvato nel maggio scorso, recepisce molte delle richieste avanzate, sin dai primi anni Novanta, da chi si è battuto per il superamento del sistema proporzionale. L’Italicum è una buona legge elettorale; ha qualche emendabile difetto, ma ha l’immenso ed enorme pregio di designare il vincitore della competizione elettorale e di assegnargli la maggioranza dei seggi parlamentari per consentirgli di governare.

Quasi niente, invece, è stato fatto e sarà fatto per rafforzare il Governo. Il capo del Governo italiano non ha e continuerà a non avere nemmeno il potere di proporre la destituzione di un ministro non più gradito. Su questa materia, l’atavica paura del tiranno è ancora molto forte ed impedisce d’individuare serenamente i meccanismi giuridici più adeguati a rendere più coeso ed autorevole il Governo italiano.

I lavori sono in corso per superare il bicameralismo paritario. Dopo quattro fallimentari tentativi di riforma della Costituzione, l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, promosse, subito dopo le elezioni del febbraio 2013, un tentativo di riforma costituzionale pragmaticamente focalizzato sulla revisione del bicameralismo, sul riordino dei rapporti tra Stato e Regioni, e sulla soppressione di enti inutili come le Province e il CNEL. Il tentativo di riforma promosso da Napolitano mira a correggere le storture più macroscopiche del nostro assetto istituzionale e non interviene sulle assai controverse materie della forma di governo e dell'ordinamento giudiziario. Le correzioni proposte, e racchiuse nel cosiddetto “disegno di legge Boschi”, sono estremamente ragionevoli e potevano essere condivise da tutti i partiti.

In nome del realismo politico, la riforma costituzionale in discussione evita di prendere atto dell’inutilità del Senato e delle Regioni, che non hanno più ragione di esistere perché sono scomparsi gli interessati beneficiari (l'aristocrazia ed il PCI) della loro istituzione. Spiace ammetterlo, ma, anche se abbondano le ragioni per abolire il Senato e le Regioni, non c'è sufficiente consenso per attuare questo lodevole proposito.

Il Senato continuerà ad esistere, ma verrà fortemente ridimensionato nella sua composizione e nei suoi poteri; sarà composto da 100 senatori e potrà solo esprimere, entro 40 giorni, pareri non vincolanti sulle proposte di legge approvate dalla Camera dei deputati; solo pochissime leggi ordinamentali dovranno ancora essere collettivamente approvate sia dalla Camera che dal Senato. Saranno ridotti anche i poteri delle Regioni; dopo la confusa riforma del 2001, le Regioni a statuto ordinario, in pratica, torneranno a legiferare nelle materie su cui hanno legiferato dal 1970 al 2001.

Se si vogliono muovere degli appunti al testo della riforma licenziato dal Senato il 13 ottobre scorso, bisogna far notare che il passaggio ad un Parlamento sostanzialmente monocamerale ed eletto con metodo maggioritario imponeva qualche riflessione in più sulle deliberazioni attinenti la Pace e la Libertà, solennemente promesse e garantite agli italiani dai costituenti antifascisti. Qualcosa è stato fatto sulla deliberazione dello stato di guerra, che la Camera non potrà più prendere a maggioranza semplice, ma a maggioranza assoluta (dei componenti o dei votanti?). Non è stata, invece, maggiormente tutelata l’approvazione delle norme riguardanti le libertà civili (ex artt. 13-28 della Costituzione). Per queste deliberazioni, la cui segretezza è tutelata dai regolamenti parlamentari, andavano costituzionalmente previsti il voto segreto, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei deputati e il divieto di porre la questione di fiducia. Sarebbe stata utile anche la previsione di una maggioranza qualificata per l’approvazione della legge elettorale, al fine di evitare il ripetersi di quanto accaduto nel 2005, quando la maggioranza di centrodestra, data in svantaggio da tutti i sondaggi, cambiò la legge elettorale per impedire la vittoria del centrosinistra.

Su questi aspetti dovevano incentrarsi le critiche delle forze di opposizione, anziché sull'anacronistica difesa del Senato e del bicameralismo paritario. Durante il dibattito parlamentare, tutti gli oppositori hanno avuto un atteggiamento distruttivo, hanno sbraitato ed urlato, ma non hanno avanzato una proposta alternativa di riforma.

Anche gli autonominati difensori d'ufficio della Costituzione (Rodotà, Zagrebelsky, Travaglio, Crozza, etc.) avrebbero dovuto sollevare critiche ed osservazioni più articolate dei loro soliti ritornelli. A loro va semplicemente ricordato che erano contrari al bicameralismo paritario Piero Calamandrei e Costantino Mortati, giuristi illustrissimi ed estensori materiali del testo costituzionale.

Dopo il voto favorevole incassato il 13 ottobre, il disegno di legge Boschi non verrà più modificato. Dovrà essere votato un'altra volta dal Senato ed altre due volte dalla Camera. Poi, nell'ottobre del 2016, ci sarà il referendum confermativo. Alla fine di questo lungo percorso, gli Italiani dovranno decidere se approvare la Riforma voluta da Giorgio Napolitano o tenere in vita delle istituzioni inceppate. Confidiamo serenamente nella loro intelligenza.

(Foto: Sailko/ Wikimedia Commons)

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