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Un magistrato di nome Rocco (Prima Parte)

Palermo, venerdì 29 luglio 1983, via Federico Pipitone n. 59, zona centrale del capoluogo siciliano. Sono da poco passate le 8 di mattina. Un uomo esce di casa, si dirige verso la macchina che lo deve portare al lavoro.

 E' un attimo: una Fiat 126 verde - imbottita di circa 48 chili di tritolo e parcheggiata all'altezza del portone d'ingresso dell'edificio - salta in aria. Muoiono l'uomo appena allontanatosi da casa, due carabinieri (il maresciallo Mario Trapassi, 32 anni, e l'appuntato Salvatore Bartolotta, 48 anni) e il portiere dello stabile (Stefano Li Sacchi, 60 anni).

Il bilancio finale della strage è di 4 morti e 19 feriti, tra cui l'autista Giovanni Paparcuri: sul momento entra in coma, ma poi se la caverà con un indebolimento permanente dell'udito. L'esplosione è devastante, la scena agghiacciante: morti e feriti a terra, l'androne dello stabile distrutto, saracinesche di negozi accartocciate, lamiere e schegge di carrozzeria sparse a vasto raggio, una buca sull'asfalto della strada del diametro di 70 cm e profonda 15 cm. Una scena di guerra.

L'obiettivo era l'uomo uscito di casa per recarsi al lavoro. Si tratta di un magistrato di 58 anni costretto da tempo a recarsi in Tribunale su un'Alfetta 2000 blindata e a vivere sotto scorta per le numerose minacce di morte ricevute (gli uomini in tal senso messi a sua disposizione sono 6 Carabinieri, di cui 4 sopravvivono miracolosamente all'attentato). Si chiama Rocco Chinnici.

Nato a Misilmeri (Palermo) il 19 gennaio 1925, nel maggio 1966 era diventato giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo. L'anno seguente aveva istruito il suo primo processo di mafia, con tanto di mandati di cattura. Si disse subito fosse un procedimento "vacante, vuoto", cioè senza prove, basato sul nulla. In primo grado la Corte d'Assise palermitana avrebbe assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove, ma poi la Corte d'Assise d'Appello e la Cassazione avrebbero condannato quasi tutti per associazione a delinquere (confermando le assoluzioni per l'accusa di omicidio).
 
Nel 1975 Chinnici era diventato Consigliere Aggiunto; dal 6 dicembre 1979 dirigeva l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo in qualità di Consigliere Istruttore. Il suo predecessore, il giudice Cesare Terranova, era stato ucciso da Cosa Nostra 72 giorni prima, il 25 settembre 1979. 
La strage mafiosa cui risulta vittima Chinnici rappresenta un segnale di notevole cambiamento in Sicilia. Se infatti Cosa Nostra aveva ucciso altri fedeli servitori dello Stato - il poliziotto Boris Giuliano (21 luglio 1979), il carabiniere Emanuele Basile (3 maggio 1980), il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) e il magistrato Gaetano Costa (6 agosto 1980), oltre il già ricordato Terranova - sparando colpi di arma da fuoco alle spalle o attraverso il finestrino dell'auto della vittima, per Chinnici i boss scelgono per la prima volta la strage eclatante, inaugurando tristemente la stagione delle autobombe destinate agli uomini leali alle Istituzioni (gli unici altri a subìre una simile fine "spettacolare" sarebbero stati nel 1992 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, entrambi giudici dell'ufficio Istruzioni retto da Chinnici).

L'attentato al giudice Rocco Chinnici
 
Ma perchè inaugurare una strategia terroristica così plateale? Perchè colpire Chinnici?
Innanzitutto il contesto. Siamo nei primi anni '80. La Sicilia è caratterizzata da una generalizzata scarsa sensibilità e attenzione per la mafia. Le indagini vengono svolte solamente grazie alla buona volontà e capacità investigativa di ben pochi magistrati, peraltro non organizzati in gruppi di lavoro o in strutture efficienti. Complessivamente, la magistratura non mostra alcuna incisività repressiva nei confronti del sempre più dilagante fenomeno mafioso. L'andazzo è remissivo, l'aria di totale indifferenza. Quei limitati uomini fedeli allo Stato che invece decidono di combattere finalmente la mafia sono facilmente isolabili e isolati.
 
Sono anche gli anni della seconda guerra di mafia, iniziata il 23 aprile 1981 (con l'omicidio del boss Stefano Bontate) e terminata il 30 novembre 1982 (con l'uccisione dei mafiosi Rosario Riccobono, Salvatore Scaglione e Salvatore Micalizzi). Pur maggioritari dalla fine degli anni '70 nella Commissione provinciale di Palermo (l'organo di vertice di Cosa Nostra, a cui spetta prendere le maggiori decisioni, tra cui gli omicidi da realizzare), i Corleonesi dei boss Salvatore Riina e Bernardo Provenzano vogliono impadronirsi dell'intera associazione criminale, spodestando a suon di centinaia di omicidi per strada la cosiddetta "ala moderata" di Cosa Nostra, i cui maggiori rappresentati sono i boss Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone.
 
Di fronte a tutto questo, che cosa fa Chinnici appena insediatosi al vertice dell'Ufficio Istruzione del Tribunale palermitano nel dicembre 1979? Raccogliendo l'eredità spirituale del predecessore Cesare Terranova e proseguendone l'importante lavoro antimafia svolto con impegno, adotta tecniche investigative rivoluzionarie e metodi di lavoro innovativi per l'epoca: organizza gli uffici giudiziari, garantendo una più efficace e razionale impostazione del lavoro e predisponendo moduli operativi tali da consentire lo scambio di informazioni tra i magistrati titolari dei vari procedimenti; coordina le indagini mirate a cogliere la connessione tra i diversi delitti di mafia e a individuare collegamenti operativi tra i diversi gruppi criminali mafiosi; indaga sul patrimonio finanziario e bancario delle cosche, sequestrando per la prima volta conti correnti. Tutto ciò porta a un enorme salto di qualità nella repressione antimafiosa, rappresentando un'enorme svolta nella lotta alla mafia, fino ad allora quasi assente. Non solo. Con tali innovazioni nel metodo lavorativo, Chinnici inaugura il lavoro di squadra dei magistrati, creando un metodo nuovo - quello del pool antimafia - che sarebbe poi stato ripreso e realizzato dal successore di Chinnici: il giudice Antonino Caponnetto. Non è un caso se:

- sia stato proprio Chinnici a chiamare a lavorare accanto a sè alcuni giovani magistrati che avrebbero poi costituito il famoso pool antimafia di Caponnetto, scoprendone e valorizzandone le straordinarie capacità: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello Finuoli. Tanto da aver fatto dire a quest'ultimo che "senza Rocco Chinnici non ci sarebbero stati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino";

- il maxiprocesso a Cosa Nostra (che ha visto alla sbarra ben 475 imputati) sia stato il risultato, la conseguenza e la prosecuzione del lavoro istruttorio svolto da Chinnici. Tant'è vero che nella premessa dell'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa l'8 novembre 1985 dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (documento che ha portato al maxiprocesso), Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli scrivono: "Riteniamo doveroso ricordare che l’istruttoria venne iniziata, oltre tre anni fa, dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che in essa profuse tutto il suo impegno civile, a prezzo della sua stessa vita".

Tuttavia gli encomiabili meriti di Chinnici non finiscono qui:

- è tra i primi a capire che la mafia è un fenomeno unitario, dal momento che dietro i numerosi delitti non ci sono solo i singoli esecutori, ma un folto gruppo di persone collegate tra loro che lavorano per gli interessi e il progresso dell'intera Cosa Nostra;

- intuisce (e lo denuncia pubblicamente) gli stretti rapporti tra mafia e importanti centri di potere politici ed economici, rappresentati dai cugini Antonino e Ignazio Salvo, da anni facoltosi esattori delle imposte, massima potenza economica siciliana e insospettabili proprietari di un impero miliardario. Denuncia lo spessore criminale di questi ultimi, nonostante il loro rilevante "peso" in Cosa Nostra, la loro caratura delinquenziale quali "uomini d'onore" della famiglia di Salemi e il loro fondamentale ruolo di anello di congiunzione tra boss mafiosi e politici locali e nazionali (tra i quali Giulio Andreotti) sarebbero stati appurati solo in seguito alle confessioni del boss pentito Tommaso Buscetta;

- scopre che la morte di Peppino Impastato non è stato frutto dell'esplosione di un ordigno da lui stesso collocato, bensì di un tipico delitto di mafia;

- attraverso le indagini bancarie svolte con Giovanni Falcone, non solo scopre che i mafiosi si servono delle banche, ma che esiste un collegamento tra Cosa Nostra e la 'ndrangheta, anche grazie a consistenti passaggi di denaro (dell'ordine di centinaia di milioni di lire) dalla Calabria alla Sicilia;

- sempre insieme a Falcone, scopre i collegamenti internazionali della mafia con il traffico di droga e i numerosi rapporti tra mafia palermitana e mafia americana. Istruendo un processo contro 24 imputati, Chinnici scopre un giro vorticoso di centinaia di milioni con gli Stati Uniti. Nella relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982, Chinnici dice:
 
 "Gli utili rilevantissimi ricavati dalla produzione e dalla vendita dell'eroina, calcolati in diverse migliaia di miliardi, attraverso il cosiddetto riciclaggio, operato da istituti di credito, da casse rurali ed artigiane, alcune delle quali gestite - anche se per interposta persona - dagli stessi mafiosi, vengono investiti nell'edilizia, nella trasformazione agraria, in attività commerciali e industriali dall'apparenza del tutto lecita. La mafia continua nell'attività e della produzione e del commercio di sostanze stupefacenti. Le indagini condotte da Falcone hanno messo in evidenza i legami della mafia siciliana e di quella calabrese e napoletana e dei gruppi che operano nell'Italia del Nord, con trafficanti di eroina e di armi belgi, francesi, mediorientali; hanno fornito conferma al fatto che le potenti famiglie che operano negli Usa e nel Canada e che provengono in massima parte dalla Sicilia occidentale, con particolare riferimento ai traffici illeciti di eroina, sono in posizione di dipendenza rispetto alle associazioni mafiose dei paesi di origine, specie dopo che il centro di produzione dell'eroina si è spostato dalla Francia meridionale a Palermo e fors'anche in Calabria e nel napoletano. Oggi il centro principale degli interessi mafiosi internazionali è costituito dai laboratori clandestini installati in Sicilia; l'isola - al centro del Mediterraneo, in posizione strategica - è anche punto di smistamento e di produzione clandestina di armi";


- solleva pubblicamente il tanto enorme, quanto sottaciuto problema del consumo di droga tra i giovani: 
 
"Bisogna capire quanto è triste e sconvolgente vedere dei giovani semidistrutti dall'eroina. Oggi a Palermo abbiamo 3.000/3.500 eroinomani. Fra dieci anni questa cifra potrà raddoppiare. Quale problema, quale dramma! Purtroppo qui da noi, col pressapochismo che ci contraddistingue, questo problema non viene affrontato come si dovrebbe. Si è portati a sottovalutare il problema della droga, i cui effetti deleteri non li vediamo ancora, ma li vedremo fra dieci anni. Perchè il tossicodipendente diventa un peso per la società, oltre che per le famiglie. Le 50.000 lire per le dosi di eroina bisogna trovarle! Come vi spiegate i 50.000 furti all'anno nella città di Palermo? Un'alta percentuale di rapine viene consumata da soggetti drogati. I nuovi accattoni sono i drogati. I furti nell'appartamento, delle autovetture! Ecco il problema, che prima di essere giudiziario è sociale, civile, umano. E i danni di tante famiglie, i suicidi di tanti ragazzi, di qualche genitore, le epatiti da siringa! Come si può rimanere insensibili, inerti? La mafia oggi è diventata la portatrice dei malanni più gravi. Perchè in passato se rapinava, se estorceva, se impoineva il pizzo, tutto sommato noin cagionava tutto il male che oggi invece produce con la droga. Mafia e droga sono un binomio inscindibile. La droga è oggi la principale attività della mafia. La droga viene smerciata dalla mafia. La mafia come associazione per delinquere è stata sempre fuori legge. Ma ora è anche contro l'umanità. Il traffico della droga io lo considero un delitto di lesa umanità" (da un'intervista rilasciata al periodico palermitano "Segno" nel 1981);


- sui rapporti tra mafia e politica ha - come sempre - le idee molto chiare:

"Il potere ha un rapporto spregiudicato di do ut des con la mafia" (da un convegno tenuto a Grottaferrata nel 1978);
 

"Se la mafia ha legami con il potere, se a volte diventa potere, come può il potere combattere se stesso? Non lo può. E, allora, noi non possiamo parlare di responsabilità di tutti i partiti politici. Noi dobbiamo parlare di responsabilità di quei partiti politici che fino a oggi hanno determinato il potere. Non si può fare di tutte le erbe un fascio. Dobbiamo essere sereni e obiettivi nel formulare i nostri giudizi. Le leggi che si fanno - ma io parlerei di leggi che non si fanno. Che leggi ci ha dato il potere dopo le conclusioni cui è pervenuta la Commissione antimafia? Nessuna legge. E allora: come non possiamo muovere questo gravissimo appunto al potere: ci avete dato leggi atte a combattere il potere mafioso? Non ce le avete date. Noi abbiamo dei discorsi commemorativi. Abbiamo lapidi per i magistrati, i funzionari, gli ufficiali che cadono. Ma per la gente che non ha un ruolo ben definito, che rimane vittima della mafia - che poi vittima della mafia è tutta la società nella quale viviamo - che cosa c'è, che cosa c'è stato in passato? Niente. Il silenzio. I cento morti di Palermo, che sono più di cento: dobbiamo aggiungere ai morti ufficiali le lupare bianche. Dobbiamo aggiungere i ragazzi vittime della droga: non sono questi ragazzi uccisi dalla mafia? Nessuno che abbia una sensibilità normale può esimersi, oggi, dal dare un contributo - quale esso sia - alla lotta contro la droga, che poi significa lotta alla mafia. Di questi ragazzi non ci sentiamo noi tutti responsabili? Veramente mi sento responsabile di questi morti. Perchè sono convinto - dobbiamo essere convinti - che nessuno di noi ha farto quanto era in suo potere per combattere questa che è la più odiosa delle attività mafiose. Oggi il politico si caratterizza per la amoralità. Quando non si affrontano questi gravi problemi della mafia, quando non si affronta con la dovuta energia il problema della lotta alla droga, allora non siamo noi solo, noi cittadini, responsabili - noi lo siamo per quella indifferenza che ha caratterizzato il nostro comportamento - ma il politico, che avrebbe avuto il dovere di fare e non ha fatto nulla. Ecco perchè quasi un po' il rimorso, il senso di colpa, il problema morale, che devono essere sentiti da tutti , ma specialmente da coloro i quali noi mandiamo col voto al Parlamento per darci le leggi. Le leggi che il politico non ci dà. Le leggi che il legislatore non ci dà. E allora le colpe su chi? Beh, sui giudici, sulla polizia, su chi è chiamato istituzionalmente ad applicare le leggi. Ma se non ce le danno, quali leggi dobbiamo applicare noi? Il garantismo. Certo, il giudice non può condannare se non c'è una legge. Ma le leggi ce le devono dare. E allora, signori miei, il rimedio. Ecco: la mobilitazione delle coscienze. Perchè solo così, quando tutti noi saremo sensibilizzati, da questo momento in poi noi ci sentiamo solidali con chi è caduto, noi avvertiamo imperioso il bisogno di compiere il nostro dovere di cittadini: solo così si potrà dare un contributo per la lotta contro la mafia e contro la droga" (da un convegno organizzato dalla Facoltà di Magistero dell'Università di Palermo il 17 dicembre 1981);
"La mafia non ha mai avuto credo politico. Se qualche volta, in passato, essa ha preso apertamente posizione, ciò non può essere interpretato in chiave politica, bensì in funzione semplicemente utilitaristica. In Sicilia la mafia sta dalla parte del potere, lo permea, spesso lo condiziona, per trarre dal rapporto con esso il maggior vantaggio possibile" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);
"La pubblica amministrazione è talmente permeata di mafia, le istituzioni sono talmente permeate di mafia per cui sembra veramente difficile poter arrivare da un anno all'altro alla soluzione del problema. Oggi non c'è opera pubblica in Sicilia che non costi 4 o 5 volte quello che era stato il costo preventivato, non già per la lievitazione dei prezzi, ma perchè così vuole l'impresa mafiosa, impresa alla quale è spesso interessato un colletto bianco"(da un convegno tenuto a Milano il 2 luglio 1983, 27 giorni prima la strage di via Pipitone);


- si spende strenuamente in difesa della legge Rognoni-La Torre, ovvero la legge 13 settembre 1982, n. 646 che ha introdotto il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) e ha reso obbligatorio il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Partecipando come relatore a un incontro con altri magistrati impegnati in procedimenti antimafia - tenutosi a Castelgandolfo tra il 4 e il 6 giugno 1982 - Chinnici, pur riconoscendo che la mafia possa essere riconducibile entro lo schema dell'art. 416 c.p. (cioè l'associazione per delinquere semplice), sostiene che "data la complessità e le implicazioni di ordine socio-economico e politico connaturate al fenomeno, è grave errore farlo rientrare nella fattispecie dell'art. 416 c.p.. La realtà odierna impone l'urgente e indifferibile necessità di creare la nuova figura del reato di associazione mafiosa con pene diverse e più gravi rispetto alle sanzioni comminate per gli appartenenti alle associazioni per delinquere previste dall'art. 416 c.p.. Sul punto esiste l'articolato disegno di legge presentato dal compianto on. La Torre (deputato comunista ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile 1982. La sua proposta legislativa sarebbe divenuta legge dello Stato solo dopo l'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nda) e da altri deputati. Se pure, sul piano operativo, non sarà compito facile - attesa la segretezza particolare che regola le organizzazioni mafiose - raccogliere elementi probatori, nessuno che abbia conoscenza del fenomeno può sostenere che la norma dell'art. 416 c.p. sia ancora oggi utilizzabile per combattere efficacemente il fenomeno stesso. La nuova figura del reato di associazione mafiosa, con l'adozione di nuovi e più moderni metodi di indagine (accertamenti bancari, sequestri di beni illecitamente conseguiti, ecc.) demandati a organi di polizia giudiziaria qualificati potrebbe costituire valido mezzo nella lotta contro la mafia. Sempre che ci sia volontà di farla, questa giusta e civile battaglia".
 
A quei politici che parlano di norma illiberale, antisiciliana e dannosa per l'economia, Chinnici risponde: "Sono siciliano, sicilianissimo e le dico che la legge non è iliberale, non può creare colpi all'economia se rettamente applicata, anzi può sanare l'economia siciliana e quindi non può che essere positivo il mio giudizio. Poi, signori miei, ce la vogliamo porre una domanda da siciliani autentici, non da siciliani che fanno del sentimentalismo fuori luogo? Ce lo siamo mai chiesti perchè la mafia da 40 anni a questa parte non ha fatto altro che accrescere il proprio potere economico e incidere tanto negativamente sulla vita dell'isola?" (da un dibattito trasmesso da Rai Sicilia, in risposta a un deputato regionale che aveva attaccato la legge Rognoni- La Torre).
 
Non solo i politici, anche certi avvocati sono fermamente contrari alla legge Rognoni-La Torre. Uno di questi - legale civilista del boss Giovanni Bontate (fratello di Stefano) dal 4 dicembre 1983 al 28 settembre 1988 - si sarebbe occupato fino in Cassazione di contestare il sequestro dei beni patrimoniali del padrino (tra cui due grandi imprese di costruzioni, decine di appartamenti e terreni, dal valore complessivo di decine di miliardi di lire) e impedirne la confisca e l'incameramento da parte dello Stato. Durante il processo, il legale avrebbe evidenziato addirittura i "fondati e sostanziali rilievi di incostituzionalità della legge Rognoni-La Torre", di recentissima approvazione. Tale avvocato si chiama Renato Schifani e attualmente ricopre la carica di Presidente del Senato. Non solo era stato l'Ufficio di Chinnici ad aver emesso il mandato di cattura e l'ordinanza di rinvio a giudizio nei confronti di Giovanni Bontate per associazione a delinquere nel traffico di stupefacenti, ma il penalista Paolo Seminara - l'altro difensore nominato insieme a Schifani da Bontate (all'epoca incarcerato all'Ucciardone di Palermo) - era stato citato nel diario personale di Chinnici: "Se mi succederà qualche cosa di grave i responsabili sono due". Uno di questi era proprio l'avvocato Seminara;

- sul caso Sindona così si esprime: "Che cosa costituisce la vicenda del banchiere siciliano se non un emblematico esempio di intrecci non del tutto chiari tra potere politico-finanziario e mafia? Rimane fermo e accertato il rapporto tra Sindona e i gruppi mafiosi siculo-americanidediti alla produzione e al commercio di sostanze stupefacenti. Indubbiamente oscuri interessi e attività criminose - solo parzialmente scoperte - sono alla base di rapporti nei quali sarebbe ingenuo ritenere coinvolti soltanto Sindona e il gruppo mafioso palermitano Spatola-Inzerillo" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- interviene anche in merito ai frequenti silenzi della Chiesa
 
"La Chiesa non può rimanere insensibile". In caso contrario, un cardinale "verrebbe meno ai suoi doveri sacerdotali. In un incontro a Grottaferrataio parlai di taluni preti mafiosi. Purtroppo, abbiamo avuto qualche prete mafioso: è storia. Però, ecco, la Chiesa ha il dovere sacrosanto di intervenire. Se la Chiesa tace, incorre - a mio giudizio - in un gravissimo errore, perchè viene meno alla sua missione. Speriamo che ogni parroco, ogni sacerdote, ogni suora, ogni religioso consideri anche questo impegno contro la mafia, contro la droga, come un preciso dovere del suo ministero. Io credo che su questo dovere non si possono avere - neppure lontanamente - dubbi" (da un'intervista rilasciata al periodico palermitano "Segno" nel 1981);


- a chi addebita all'intera cittadinanza una collaborazione con la mafia dovuta al proprio silenzio, replica: "Non si può accusare di collaborazionismo una cittadinanza che ha visto uccidere il titolare dell'albergo Costa Smeralda che aveva collaborato. Non si può accusare di colaborazione una cittadinanza che non ha alcuna protezione nel potere, una cittadinanza che è stata abbandonata dal potere, una cittadinanza che vede la mafia padrona quasi assoluta della vita, dei beni, degli interessi economici della società. In queste condizioni io assolverei per insufficienza di prove e non condannerei. In queste condizioni io direi che semmai si può parlare di paura. Paura che avvinghia. Paura che attanaglia. Paura che fa preferire i 3 mesi di carcere per falsa testimonianza o per favoreggiamento, purchè si continui a vivere, se vita può essere quella di coloro i quali sono costretti a subire giornalmente la violenza mafiosa" (da un'intervento a un dibattito tenuto presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Palermo il 17 dicembre 1981);

- intuisce i rapporti tra Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta
 
"Esistono strettissimi legami tra le organizzazioni mafiose delle tre regioni (Sicilia, Calabria e Campania, nda). Tali organizzazioni, nella produzione e nel commercio di eroina, sono in rapporto con le organizzazioni internazionali, segnatamente con le famiglie mafiose d'origine siculo-calabro-napoletana, destinatarie dell'eroina prodotta in Sicilia e in Calabria ed operanti negli Usa e nel Canada". Insomma denunciò i "rapporti concreti sicuramente illeciti tra i gruppi mafiosi delle tre regioni, con i collegamenti nelle città industrializzate, Torino e Milano in modo particolare" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);


- comprende la trasformazione della mafia in impresa:
 
 
"L'accumulazione degli enormi profitti - tratti dalla produzione e dal commercio degli stupefacenti, dal contrabbando di tabacchi lavorati esteri, dalle estorsioni, dal cosiddetto pizzo, dai sequestri di persona - ha trasformato le famiglie mafiose in società imprenditrici. E' questa una realtà nuova. Le famiglie mafiose sono diventate delle vere imprese che operano nell'edilizia, nell'agricoltura e nel commercio; pertanto, oltre che forza reazionaria e criminale, collegata da sempre col potere, la mafia, oggi, è diventata potenza economica che condiziona financo il potere" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);


- segnala con forza il legame tra mafia e potere:
 
 "Oggi più che ieri, la mafia - inserita com'è nella vita economica dell'isola - non può fare a meno dei rapporti col potere; lo dimostrano avvenimenti, piuttosto recenti, che hanno visto imprese mafiose aggiudicarsi appalti di opere pubbliche per decine di miliardi estromettendo altre concorrenti, non mafiose, o comunque non legate alla mafia. La mafia, oggi come nel passato, non può mantenere posizioni di rilievo nella vita siciliana, non può avere incidenza politica, se abbandona schemi collaudati da oltre un secolo, se - forte della potenza economico-finanziaria raggiunta - allenta i vincoli che la legano al potere. E se è vero che, per il raggiungimento di determinati obiettivi illeciti, ha mutato metodi e sistemi gangsteristici, è fatto incontestabile che il rapporto con certi settori del potere permane tuttora. Indubbiamente, le imprese mafiose che operano nell'edilizia, nell'agricoltura, nel commercio, proprio per il fatto che creano posti di lavoro e producono ricchezza possono incidere nel tessuto socio-politico ed economico della regione, nel senso che in occasione di consultazioni elettorali possono orientare parte dell'elettorato. Là dove esistono condizioni economico-sociali depresse, la mafia può approfittarne per accrescere la propria potenza e il proprio prestigio" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);


- è convinto che nei processi di mafia gli elementi probatori debbano essere valutati in maniera diversa (pur nello spirito della legge) rispetto ai processi "semplici", riguardanti ad esempio le rapine.
 
 
Continua...
 
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