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Twitter non è una macchina della verità

«Twitter è una macchina della verità» (John Herrman). Anzi, «un forno che si auto-pulisce» (Mathew Ingram). Nomi diversi per uno stesso concetto: nel racconto dell’uragano Sandy, Twitter ha sì diffuso notizie false (l’ospedale di Coney Island preso dalle fiamme, la Borsa di New York sotto «tre piedi» d’acqua e molto altro), ma ne ha anche denunciato la falsità – pur se nel modo caotico che gli è proprio (Herrman parla di «auto-correzioni selvagge»). Non solo: l’ipotesi è che la verità, alla fine, trionfi. E cioè che quelle rettifiche più che compensino la diffusione di bufale e menzogne.

Difficile stabilirlo con tanta nettezza: casi come quello nostrano di #OccupyIsernia dimostrano che le bufale, anche quando apertamente tali, possono avere vita abbastanza lunga da ingannare anche i professionisti. E che, anche quando le smentite circolino da un pezzo, c’è sempre qualcuno che arriva e o non trova la smentita o non la vuole vedere (quest’ultimo, naturalmente, è un problema che riguarda più la psiche individuale, che Twitter e, più in generale, l’informazione in Rete).

Come dice ad AFP il vice-direttore del Project for Excellence in Journalism del Pew Research Center, Amy Mitchell, «perfino quando un’informazione è stata corretta, c’è una buona probabilità che giunga a individui che non la vedranno mai». Soprattutto, se la platea di potenziali fact-checker non è estesa come quella in lingua inglese, c’è una più alta probabilità che quella correzione nemmeno (ancora) ci sia. Non esattamente il funzionamento ottimale, per una «macchina della verità». Insomma, come scrive Slate, quella della «macchina della verità» è «solo metà della storia». E quei miti che Twitter ha contribuito a definire come tali, senza Twitter non sarebbero neanche nati.

C’è poi un secondo aspetto, che coinvolge l’espressione «siamo tutti giornalisti» che Forbes utilizza per riassumere lo stato attuale dell’ecosistema dell’informazione, fatto di un misto di professionisti, amatori e persone che stanno nel mezzo. A riassumerlo è sempre Mitchell: «C’è più di un onere che grava sul consumatore di notizie per essere in grado di controllare da sé, sapendo di quali fonti fidarsi». Se la CNN riprende una notizia falsa di un account troll, e magari a dire che quella notizia è falsa sono semplici utenti su Twitter, a chi credere? Serve fatica. Insomma, la «macchina della verità» funziona solo se si cerca la verità e se si fa la fatica necessaria a scovarla. Spesso è questione di attimi, in altre circostanze serve più tempo – ma è comunque un peso per il cittadino. Che non è certo pagato per arrivare là dove i giornalisti, fossero anche i più attenti, non arrivano.

Da ultimo, c’è che le parole contano. E che quando si pensa che a dire cosa è vero o falso sia una «macchina», e che possa dirimere da sé (il forno si deve «auto-pulire»), c’è sempre il rischio che si attribuiscano al mezzo le qualità di chi lo usa. E che, di conseguenza, chi dovrebbe fare lo sforzo che serve per separare notizie e bufale finisca per affidarsi alle virtù taumaturgiche di Twitter. Del resto, non si è mai vista una «macchina della verità» che produca menzogne.

Più interessante di certo è lo spunto di discussione fornito da Mario Tedeschini-Lalli, su Twitter, in risposta a una mia provocazione:

Ecco, la questione credo sia questa: se per essere ‘noi’ (come soggetti, ma anche e soprattutto come giornalisti) abbiamo bisogno di Twitter, non è che abbiamo consegnato troppo potere nelle mani di un’azienda privata per svolgere un ruolo che è eminentemente pubblico?

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Francesco Finucci (---.---.---.239) 1 novembre 2012 19:40
    Francesco Finucci

    Qui si pongono un bel po’ di problemi, a partire dalla validità di un principio dogmatico come quello per cui più persone mettono mano a qualcosa, più questa sarà perfezionata. Non funziona evidentemente così. E la questione è proprio come "mettere mano" all’informazione implichi un’azione pro-attiva del lettore, che se ha il diritto ad essere informato, ha il dovere (civico?) di informarsi. Tanta responsabilità, però, sta anche nei blogger, Chiusi, perché io lo vedo, specie nei profili facebook e nello sfruttamento del fatto che Twitter ha un limite risibile di caratteri per i post, lo vedo come si sfrutta quest’aura di mistero che poi rivela spesso, perlomeno delle ambiguità irrisolte all’interno degli articoli, se non delle manipolazioni.
    Sperare, in questo senso, che i blogger, perché piazzati sulla rete, siano più democratici, aperti, intelligenti dei giornalisti della carta stampata fa parte di un dogma che sarebbe molto salutare abbandonare. E questo passo dev’essere proprio dei blogger, specie di quelli che in tale ambiente hanno più visibilità (compreso lei, Chiusi).

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