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Twitter, il nuovo iPad e la distopia

C’è qualcosa di profondamente distopico nel flusso incessante di tweet che ha accompagnato la presentazione del nuovo iPad. Quelle parole tutte uguali, ridondanti. Le stesse specifiche ripetute ancora e ancora. I dettagli rivelati a San Francisco e contemporaneamente in tutto il mondo tramite dita che premono tutte gli stessi tasti, tutte sugli stessi apparecchi, tutte sullo stesso sito. Tutte con desiderio, come atleti che vogliano giungere per primi alla meta. Per battere gli altri sul tempo, dare la notizia. Atleti. Ma allo stesso tempo operai. Forse schiavi.

Chissà per quale ragione mi è venuto in mente il passaggio di una poesia di Eliot in cui lavoratori sfiniti – almeno, così li ricordo – silenziosamente attraversano London Bridge, capo chino sotto la pioggia. O le scene in bianco e nero di Metropolis: destra, sinistra, destra, sinistra. Tutti a ciondolare da una parte, tutti a ciondolare dall’altra. Sarà per come ciascuno ha cercato di distinguersi dall’altro, dando dettagli, coloriture, toni e sfumature diverse, personali, a ciò che ha scritto. Per come anche questo abbia finito per accomunare tutto ciò che ho letto, renderlo simile quanto le stesse semplici, nude notizie ripetute all’unisono, all’infinito. Poi mi è venuto in mente come, individualmente, ciascuno dei professionisti (e non) che ha preso parte a quella assurda marcia sappia benissimo lo scarso o nullo valore della ridondanza nel mondo dell’informazione. Come, superata una certa soglia, diventi sovraccarico e rigetto. E che ugualmente, pur di esserci, pur di ciondolare insieme agli altri, abbia momentaneamente rinunciato a questo suo principio, a questa base della sua professione.

Tutto terribilmente distopico. Ma non nel senso di 1984. Perché non c’è alcuna costrizione in quella ripetizione meccanica di gesti: guarda, ascolta, prendi il cellulare, apri Twitter, twitta, premi il bottone centrale, riponi il cellulare, ascolta di nuovo. E’ tutto volontario. Chissà se Jobs l’aveva previsto, dipingendo l’acerrimo rivale come il Grande Fratello. Chissà se aveva già capito che il vero potere si ottiene come nell’incubo di Huxley: perché finisci per chiamare libertà ciò che sei costretto a fare senza che nessuno ti costringa a farlo. E, mentre lo fai, ha una strana euforia addosso, ti senti felice. Un’ultima cosa mi è venuta in mente. E’ una domanda che ho trovato in un mazzo di appunti su un romanzo distopico di Margaret Atwood. «Why do I want?». Perché voglio? Il fatto che suonasse così strana, e al contempo così viva, ha reso il tutto perfino più reale.

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