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Twarz - Un’altra vita

Un'altra vita si chiama il film in italiano, Twarz in polacco, che vuol dire faccia, è la faccia che si spappola il bello e simpatico Jacek cadendo dall'impalcatura mentre lavora a modellare la testa che verrà posta sulla statua di Cristo Re più alta del mondo, più di quella di Rio de Janeiro. Esiste davvero questa statua, costata un'enormità con le offerte dei fedeli, che sorge accanto a un paese di 12000 abitanti, Swiebodzin al confine tra Polonia e Germania,.

Attorno a questo paese e a questa statua, o alla Chiesa, ruota il film. Ma protagonisti sono - più che i veri e propri personaggi (Mateusz Kosciukiewicz come Jacek, Malgorzata Gorol come sua fidanzata diventata ex dopo l'incidente, Agnieszka Podsiadlik quale sorella davvero amorevole di Jacek, prima e dopo che cambino i suoi connotati) – i comportamenti della comunità, le ipocrisie religiose e delle persone in genere.

E' un campionario di comportamenti, di cui si sorride tristemente. In ordine di successione vediamo: una “corsa grottesca in intimo” ai saldi natalizi, con la quale gli avventori del negozio cominciano a spogliarsi fuori al freddo, per correre poi a disputarsi televisori a megaschermo e altre merci di cui siamo schiavi (così se ne dichiara perfino la regista, Malgorzata Szumowska); nella calca spicca simbolicamente un sedere coperto da mutande con sopra scritto Polska, Polonia. E' la volta poi delle orazioni in chiesa e, dato che a Natale “si è tutti più buoni”, nella preghiera davanti a una ricca cena si promette che non possiamo lasciare fuori al freddo il nostro prossimo... Tocca poi al voyeurismo dei media, che arrivano dopo l'incidente a Jacek, per celebrare la “vicinanza” della comunità attorno al ragazzo, alla fidanzata che lo lascia, all'esorcismo che si tenta di praticare come se a procurargli quel viso mostruoso e innaturale fosse il diavolo (ammesso che il diavolo esca dalla persona al solo volerlo o pregare, abbandona questo servo di dio!..., forse che da servi di dio si sia più meritevoli). Poi viene la tempesta di foto da smartphone nella processione religiosa, tutto va effigiato e “salvato”. C'è posto pure per uno scontro con operai immigrati, che non guasta nell'attualità, e un accenno del vescovo agli zingari che però sono cittadini polacchi, ma c'è di più: il prevosto della chiesa che indaga in confessione con la ex fidanzata di Jacek sui dettagli dei suoi toccamenti col nuovo compagno. Un pot-pourri o accozzaglia, un po' eccessiva, di comportamenti tipici della modernità ipocrita, come ad esempio le generose offerte per la costruzione della statua e gli appena 5€ che si raccolgono per aiutare Jacek nelle sue cure, che lo Stato non passa. Ciò fa pensare al crowd-funding a cui a volte si concorre per qualcosa di lontano mentre non si riesce ad aiutare chi ha pure bisogno e vive vicino a noi.

Un'altra vita Jacek l'avrà. Se ne andrà via, con quella nuova twarz (faccia), forse in Inghilterra come desiderava ad inizio film, lì magari non lo considereranno un mostro. Davvero del bigottismo religioso e dell'ipocrisia di noi moderni la regista non ne può più, e noi con essa. Bellissima la fotografia, paesaggi puri che ospitano tante brutture umane: il film richiama alla mente vagamente Il Sospetto, era Natale anche lì e l'ipocrisia o l'”amore” per colui che si ritiene diverso abbondavano. 90 minuti non da buttare, Gran Premio della Giuria a Berlino 2018.

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