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Turchia, rifugiati rimpatriati in Siria ben prima dell’offensiva militare

Altro che la “zona sicura”, il presunto scopo “umanitario” dell’invasione turca nel nord-est della Turchia: concordata nell’accordo di Soci, quella zona – beninteso, dopo aver costretto i curdi ad abbandonarla – sarebbe destinata a far rientrare in condizioni di sicurezza i rifugiati siriani.

 

Una nuova ricerca di Amnesty International, diffusa oggi, ha rivelato che nei mesi che hanno preceduto la sua incursione militare nel nordest della Siria e ben prima del tentativo di creare quella cosiddetta “zona sicura” oltre i suoi confini, la Turchia ha rimpatriato rifugiati siriani contro la loro volontà.

 

Nella provincia di Idlib, ossia esattamente in mezzo alla guerra.

In assenza di dati ufficiali, stimare il numero delle persone rimpatriate a forza è difficile. Ma sulla base di decine di interviste realizzate tra luglio e ottobre del 2019, Amnesty International ritiene che negli ultimi pochi mesi i rimpatri siano stati centinaia.

La certezza si limita al momento ad almeno 20 casi di rimpatrio forzato di persone caricate su autobus però già stracolmi di persone ammanettate coi lacci di plastica, che a loro volta potrebbero essere state vittime di rimpatrio forzato.

Nella stragrande maggioranza dei casi, i rifugiati rimpatriati sono uomini adulti. Vengono fatti salire sugli autobus nella provincia turca di Hatay e fatti scendere oltre il valico di Bab al-Hawa, nella provincia siriana di Idlib.

Alcuni dei rimpatriati hanno riferito ad Amnesty International di essere stati picchiati o minacciati di violenza affinché firmassero la dichiarazione sul rimpatrio volontario.

Altri sono stati ingannati: gli è stato detto che ciò che dovevano firmare era un modulo di registrazione della propria presenza, l’attestazione di aver ricevuto una coperta dalla direzione di un centro di detenzione o una dichiarazione sull’intenzione di rimanere in Turchia.

Una delle tante storie contenute nella ricerca di Amnesty International è quella di un siriano di religione cristiana che era stato bloccato dalla guardia costiera turca mentre cercava di raggiungere la Grecia. Dopo essere stato minacciato dai funzionari dell’immigrazione (“Se ti rivolgi a un avvocato, ti terremo qui sei o sette mesi e ti faremo male”) è stato obbligato a firmare la dichiarazione sulla volontarietà del rimpatrio.

Dopo essere stato portato in Siria, è stato trattenuto per una settimana, nella città di Idlib, da Jabhat al Nusra, un gruppo armato islamista legato ad al-Qaeda. Ha dichiarato ad Amnesty International di “esserne uscito vivo per miracolo”.

Certo, dal 2011 la Turchia ha accolto tre milioni e 600.000 rifugiati siriani: un onere riconosciuto e apprezzato a livello internazionale. Ma usarlo ora come giustificazione per violare il diritto internazionale non è accettabile.

Le autorità turche parlano di un totale di 315.000 persone sin qui tornate in Siria in modo del tutto volontario.

Ma davvero tutte queste persone hanno deciso di tornare in un paese distrutto dalla guerra?

La foto di apertura è dell’European Pressphoto Agency (EPA)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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