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Turchia, analisi elezioni: chi ha vinto, chi ha perso – Parte 2

Il 24 giugno si sono svolte le elezioni politiche e presidenziali in Turchia, che hanno visto prevalere ancora una volta il Partito dello Sviluppo e della Giustizia; tuttavia se si approfondisce l’analisi, non si è trattato di una vittoria assoluta. Nell’articolo precedente ho analizzato l’esito in senso generale, mentre in questo vado a concentrare l’attenzione sui principali partiti in campo e sulla nuova Turchia.

di Murat Cinar

Erdoğan come riesce a vincere sempre? E stavolta come ha fatto?

Il Partito dello Sviluppo e della Giustizia (AKP) in questa tornata elettorale, esattamente come è accaduto il 5 luglio del 2015, non è di nuovo riuscito a ottenere il numero sufficiente di parlamentari per comporre il governo da solo. Anche se il concetto della “coalizione” in questi ultimi anni è stata definita dallo stesso partito come una “barriera contro lo sviluppo economico e la stabilità politica”, ormai l’AKP non riuscirebbe a governare senza l’appoggio dei nazionalisti.

Il partito al governo conquista un’altra volta tutta la costa del Mar Nero, il Centro e l’Anatolia orientale, la costa mediterranea, il confine siriano e una parte del Sudest del paese. Il successo di Erdoğan e del suo partito si basa ovviamente sul controllo totale dei media, sulle numerose operazioni contro gli oppositori in atto da almeno cinque anni, i brogli nel giorno delle elezioni, l’utilizzo di più di sessanta commissari straordinari piazzati al posto dei sindaci eletti, sostegno economico della maggior parte del motore economico del Paese (aziende edili, energetiche e produzione militare), sostegno di numerose comunità religiose reso pubblico in tutti i modi durante la campagna elettorale e sfruttamento della cultura militarista e nazionalista, già ben radicata in Turchia. Soprattutto su quest’ultimo elemento bisognerebbe ricordare che dal 2015 il governo ha dato seguito a numerose operazioni militari sul territorio nazionale e oltre confine contro le organizzazioni armate curde, definite “terroristiche”, PKK e YPG/YPJ. A questo punto possiamo aggiungere anche la nuova lotta contro la comunità di Gulen, realtà definita come un’organizzazione terroristica da parte del governo soprattutto dal fallito tentativo di golpe del 15 luglio 2016.

Dunque i “nemici” interni sono un elemento di grande propaganda elettorale per l’AKP. Ovviamente questo è anche un elemento di grande fiducia e successo per l’elettore nei confronti del partito. Proprio in questa fase elettorale, infatti, il governo non ha esitato a bombardare alcune postazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) in Iraq e firmare un accordo di controllo militare a Mimbic in Siria, zona sotto controllo delle YPG/YPJ.

Non si dovrebbe scordare anche la continua e crescente collaborazione economica tra alcuni paesi e la Turchia: Russia, USA e EU. Solo tra l’Italia e la Turchia si registrerebbe un volume commerciale sopra i diciotto miliardi di dollari con un aumento dell’11 per cento rispetto al 2016. Quindi l’investimento straniero in Turchia senz’altro significa posti di lavoro, progresso economico e quindi spendibilità elettorale per il governo. Al semplice rapporto economico bisognerebbe aggiungere anche il commercio militare che permette al governo turco di attuare quell’industria di guerra che porta voti in termini elettorali.

In un territorio in cui regna la cultura del “vittimismo” e la sensazione di accerchiamento per cui “tutti ci vogliono male” che esiste per legittimare ogni tipo di meccanismo di autodifesa e di attacco, le posizioni critiche e altrettanto ipocrite dei leader mondiali vengono utilizzate in modo strategico da parte del governo locale. Prendiamo il caso del presidente francese, Emmanuel Macron: il 5 gennaio del 2018 in un incontro con Erdoğan il presidente francese critica pubblicamente la questione dei diritti umani in Turchia. Tuttavia poco dopo i due leader davanti alle telecamere firmano degli accordi bilaterali Eurosam, sull’acquisto delle armi, sulla vendita degli aerei Airbus e in ambito alimentare per la vendita di tremila tonnellate di carne. Dunque con l’evidente manifestazione della volontà di collaborazione a livello commerciale cala un pesante sipario sulle critiche umanitarie e così si trasmette un messaggio molto netto e chiaro a livello nazionale: «L’Europa dipende da noi, si mette in ginocchio, anche se ci critica non può fare a meno di noi». La domanda è: Macron e altri leader non si rendono conto di questo?

Nelle elezioni del 24 giugno, l’AKP, nonostante tutto, ha perso i suoi voti storici. Sette per cento di calo. Dove ha diminuito i suoi voti è cresciuto il suo nuovo alleato. Dunque possiamo dire di essere di fronte a un elettore conservatore e nazionalista che non si trova del tutto d’accordo con le politiche di Erdoğan ma non vorrebbe dare un’opportunità alle opposizioni.

L’MHP, il nuovo che avanza

Il Partito del Movimento Nazionalista è il nuovo alleato del governo. Dopo il fallito golpe del 2016 era diventata sempre più evidente questa storia d’amore. Soprattutto con la separazione del gruppo guidato da Meral Aksener c’era il rischio che lo storico partito nazionalista scomparisse. Dunque il leader dei lupi grigi, Devlet Bahceli, prima con il referendum costituzionale del 2017 dopo con queste elezioni ha ufficialmente deciso di appoggiare l’AKP. Sembra che il risultato sia stato abbastanza positivo per lui.

L’MHP è cresciuto nel Sudest della Turchia. Secondo alcuni la massiccia e crescente presenza delle brigate in zona ha portato nuovi voti riconducibili all’esercito. Secondo alcuni osservatori questa presenza ha creato una percezione di terrore e pressione sociale quindi l’elettore, pur non volendo, ha dovuto votare per uno dei partiti della coalizione vincente.

Invece una lettura più lungimirante emerge se analizziamo i dati suddivisi per zona e città. Nelle città dove l’AKP per anni aveva raccolto un alto numero di voti come Adiyaman, Rize, Sivas, Sirnak e Mardin, il partito al governo ha perso notevolmente il suo consenso. In queste città sulla costa del Mar Nero, in centro Anatolia oppure nel Sudest del paese sono cresciuti i voti del MHP. Anche nelle periferie delle grandi città dove regna per la maggior parte l’AKP i voti del MHP sono stati in crescita. Dunque questo ci fa capire che dove il partito di Erdoğan ha perso i voti è subentrato il nuovo alleato nazionalista del governo. Quindi meno consenso per l’AKP ma comunque il voto va per un altro partito conservatore e nazionalista.

L’MHP, esattamente come l’AKP, forse anche di più, in tutto il periodo elettorale ha utilizzato un linguaggio nazionalista e militarista. Selahattin Demirtas è un “terrorista” anche per il leader del MHP e l’HDP è “l’espressione parlamentare del PKK”. Questa idea è stata dichiarata per numerose volte da parte di Devlet Bahceli. Il concetto del terrorismo è stato utilizzato anche per legittimare un governo di destra, nazionalista e militarista.

Ormai l’AKP non ha soltanto un nuovo alleato ma un socio, ovvero una parte del governo sarà in qualche modo controllato dal MHP dato che ha lavorato perché Erdoğan potesse essere rieletto e ci fosse un governo AKP. Un nuovo potere affiancato a Erdoğan che fa parte della vecchia Turchia, la Turchia dei lupi grigi, connessioni mafiose e attentati anticomunisti.

Il CHP e la speranza di Ince

Il Partito Popolare della Repubblica ha mantenuto i voti dei suoi elettori storici; la costa dell’Egeo e la Tracia. Tuttavia va sottolineato il successo, poco più del trenta per cento dell’elettorato ha votato per Ince, candidato del CHP, partito che da parecchi anni non riusciva a superare la soglia del venticinque per cento.

L’ex insegnante di fisica Muharrem Ince è stato il candidato del CHP per la carica di nuovo presidente della Repubblica. Il suo sorriso, il suo linguaggio, le sue idee, i suoi discorsi sulla pace e sullo sviluppo economico sostenibile avevano lasciato a bocca aperta una buona parte del paese. Tuttavia durante gli ultimi comizi Ince sembra che sia caduto nella trappola di Erdoğan: nelle piazze ormai rispondeva in continuazione agli attacchi del leader dell’AKP, così ha trascurato parecchio il suo piano elettorale. Facendo così ha creato anche un quadro da “L’uomo unico contro un uomo che controlla tutto”. Erdoğan nell’immaginario del suo elettore rappresenta colui che pensa a tutto e risolve tutto, Ince in diversi suoi interventi ha provato a sostituire questa figura malata. Sembra che questo non sia stato molto apprezzato dall’elettorato che inizialmente si ispirava alla sua figura.

Nella conferenza stampa, il giorno dopo le elezioni, Ince ha parlato delle motivazioni della sua sconfitta. Secondo l’ex insegnante di fisica in cinquanta giorni non si poteva fare di più ma non nascondeva che si aspettava un risultato migliore dai suoi alleati Iyi Parti e Saadet. In quest’ottica bisogna anche sottolineare il fatto che i partiti dell’opposizione non sono riusciti a presentarsi in modo compatto ed unito davanti all’elettore, parlando di un piano d’azione oppure di un accordo di intenti.

Bisogna anche tenere in considerazione il notevole boicottaggio mediatico che è stato messo in azione contro Ince e tutti gli apparati socio-economici che sostengono il disegno economico e politico dell’AKP, di cui è privo il CHP.

In ogni caso poco più di quindici milioni di persone hanno votato per il cambiamento. Un elettore su quattro vorrebbe vedere una persona “diversa” alla direzione del paese. È troppo presto per dire se questo elettore sarebbe fidelizzato ormai al mondo delle opposizioni oppure si parla di una reazione spontanea che non si ripeterà.

Dal carcere in piazza, l’HDP

Anche in questo appuntamento elettorale il Partito Democratico dei Popoli è riuscito a superare la soglia dello sbarramento elettorale fissato al dieci per cento. L’eredità della dittatura militare è una delle barriere più ardue da superare per conseguire la rappresentanza parlamentare in Turchia.

L’HDP, oltre lo sbarramento elettorale, in realtà, ha dovuto lottare contro e con diverse difficoltà. Oggi il Partito conta undici parlamentari in carcere, tra cui il carismatico candidato presidente della Repubblica, nonché l’ex co-presidente del partito, Selahattin Demirtas. La detenzione dell’ex avvocato ovviamente non ha reso agevole lo svolgimento della campagna elettorale. Oltre Demirtas in realtà l’HDP conterebbe circa settanta sindaci in carcere. Secondo una relazione pubblicata il 9 marzo di quest’anno sul portale di notizie Mezopotamya Ajansi in tre anni sono stati messi in detenzione cautelare più di diecimila iscritti e più di tremila di questi sono stati arrestati, su un totale di circa trentamila. Quindi un iscritto su tre è finito in manette tra il 2015 e il 2018.

L’HDP ha fatto i conti con una grande difficoltà nel raggiungere i suoi elettori da diversi punti di vista. In primis ovviamente c’era la barriera fisica. Durante gli scontri che hanno sconvolto il Sud Est del paese, la zona di maggior adesione al partito, nel 2016 ha visto l’abbandono delle proprie abitazioni da parte di numerose persone. Secondo il portale di notizie T24 il numero raggiungerebbe le quattrocentomila persone.

Il 28 maggio di quest’anno il Consiglio Supremo Elettorale (YSK) in un suo comunicato ha specificato che in diverse località nel Sud Est del paese i seggi sarebbero stati unificati. Quindi diverse persone, il giorno 24 giugno, hanno dovuto percorrere diversi chilometri per votare. Secondo le stime dello YSK sono state circa centoquarantaquattromila le persone che hanno corso il rischio di non poter votare.

Ovviamente anche lo stato d’emergenza ha avuto un influsso negativo sulla campagna elettorale. Il Paese vive in questo stato da circa due anni e le conseguenze della misura sono molto dure soprattutto nella zona elettorale dell’HDP. Solo nel Sudest del paese, grazie a diversi decreti legge, sono stati sospesi circa quindicimila impiegati statali, quattrocentosessantadue associazioni sono state chiuse, centotrentanove scuole e ventisette fondazioni sono state blindate, diciotto giornali, tre canali televisivi, un canale radiofonico e due università hanno cessato le attività. Tra i giornali chiusi ricordiamo Ozgur Gundem e Azadiya Welat, realtà importanti che pubblicano anche in lingua curda. Grazie ai decreti legge successivi sono state cessate le attività giornalistiche anche dell’agenzia di notizia Diha, Jin Haber, Yuksekova Haber, Cizre Postasi, Idil Haber e Kiziltepe’nin sesi; a questi si aggiungano tutti i media online che monitoravano ultimamente i movimenti degli jihadisti dell’Isis in zona e le numerose violazioni dei diritti umani durante gli scontri tra le forze armate dello Stato e la guerriglia curda del PKK.

Bisogna inoltre aggiungere pure i numeri relativi al giorno della votazione. Il caso delle schede non valide spicca all’occhio. Solo nelle città di Hakkari e Agri i numeri sono abbastanza radicali. Rispetto alle elezioni precedenti nella prima città c’è stato un aumento del centocinquanta per cento di schede non valide e nella città di Agri il numero era del cento per cento. Questi numeri fanno venire in mente un probabile broglio di proporzioni imponenti.

Nella mappatura del voto, a livello nazionale, si vede che nella sua zona storica l’HDP ha avuto dei cali. La motivazione di questo fatto potrebbe essere spiegata con gli argomenti di cui sopra, tuttavia senz’altro l’elettore curdo conservatore è ancora un’area da conquistare per il partito. Dall’altra parte si vede notevolmente che nella parte occidentale della Turchia, anche se timidamente, l’HDP ha aumentato i suoi voti. Questo potrebbe essere considerato come una risposta alla famosa domanda: “HDP è un partito filo curdo oppure sta diventato un partito di sinistra per tutto il Paese?”.

Bisogna tenere anche in considerazione un altro fatto positivo; anche se paragonando i risultati del 24 giugno con quelli del 5 giugno del 2015, l’HDP risulta che sia sceso di qualche gradino, se guardassimo i dati del primo novembre del 2015 ci troveremmo di fronte a un quadro migliore. Ovviamente bisogna tener conto del fatto che dal 10 luglio del 2015 la tregua tra lo Stato e il PKK è interrotta. Questa circostanza e lo stato d’emergenza di sicuro sono due fattori che hanno danneggiato il partito, come ho provato a illustrare sopra. Dunque in queste elezioni, rispetto a quelle del 1° novembre del 2015, in ventotto città l’HDP ha aumentato i suoi voti.

Nonostante svariate difficoltà tecniche ed economiche dovremmo anche aggiungere la posizione netta e chiara della maggior parte dei media e del governo nei confronti dell’HDP. Ormai è sempre più evidente e di dominio pubblico che per questi l’HDP sarebbe la “rappresentanza parlamentare del PKK”. Esattamente come ha detto il Ministro degli Interni, Suleyman Soylu, il 22 giugno di quest’anno: «Non esiste un partito chiamato HDP, esiste l’ufficio politico del PKK. Anche Demirtas non è il candidato dell’HDP ma del PKK». Quindi il tentativo di associare l’HDP al “terrorismo” è ormai la politica istituzionale dello Stato e il principale obiettivo dei media.

Tuttavia l’HDP supera per la terza volta lo sbarramento elettorale e fa parte del Parlamento nazionale come terza forza politica dopo AKP e CHP. Eleggendo sessantasette rappresentanti. Quindi anche in queste elezioni è un elemento importante per impedire all’AKP di comporre il governo da solo.

La nuova Turchia

Con le elezioni del 24 giugno la Turchia entra in una fase “nuova”. Il sistema presidenziale sarà effettivo a tutto tondo. Il Presidente della Repubblica ormai avrà un controllo molto forte sul sistema giuridico, amministrativo e legislativo. In quest’articolo avevo provato a riassumere alcuni punti importanti del referendum del 2017 che aprì le porte del cambiamento.

Oltre a questa riforma radicale oggi la Turchia della vittoria elettorale dell’AKP preoccupa sempre di più. La sera delle elezioni in diverse zone pubbliche e centrali del paese numerosi sostenitori del partito sono scesi in piazza a festeggiare la “vittoria” con le armi in mano, alcune anche fuori commercio. Nei giorni seguenti all’esito elettorale sono state arrestate dodici persone per aver violato la legge sul vilipendio al presidente della Repubblica prima e dopo il comizio elettorale del candidato Muharrem Ince nella città di Izmir il 21 giugno. Cinque giorni dopo il risultato elettorale è stato arrestato l’ex parlamentare nazionale del CHP, Eren Erdem, con l’accusa di appartenere alla comunità di Gulen. Erdem è un ex giornalista famoso per le sue ricerche sulle relazioni strette tra il partito al governo e la comunità di Gulen ed i suoi lavori in cui dimostra come alcuni militanti dell’Isis, pur essendo stati intercettati telefonicamente, non sono stati mai arrestati.

Tuttavia in parlamento entrano ancora cinque parlamentari eletti nelle liste dell’AKP. Cinque personalità immortalate nella fotografia del 2012 nella città di Boston con il leader della comunità Hizmet, ossia Fethullah Gulen. Mentre nel Paese studiare in una scuola, da bambino, fondata dalla comunità Hizmet, oppure avere un conto corrente con zero liquidità presso le banche vicine al movimento possono essere delle prove sufficienti per finire in carcere, questi cinque riescono a rientrare nel parlamento, nelle liste di un partito politico che sostiene di portare avanti una “guerra” a Gulen con ogni mezzo, in Turchia e all’estero.

Cresce una nuova Turchia

Mentre già nei primi giorni dopo la “vittoria” elettorale di Erdoğan e dell’AKP si fa sentire sempre più la repressione, nel parlamento nazionale si vedono nuove facce che forse potrebbero costituire un’opposizione solida e produttiva.

Nel nuovo parlamento ci saranno due parlamentari Rom; Özcan Purçu e Cemal Bekle. Ci saranno cinque professori universitari sospesi con diversi decreti legge in questi ultimi due anni; İbrahim Özden Kaboğlu, Sezai Temelli, Nazır Cihangir İslam, Erol Katırcıoğlu e Ömer Faruk Gergerlioğlu. Tra le nuove facce c’è anche, Barış Atay Mengüllüoğlu, il famoso attore teatrale con il suo spettacolo censurato Dittatore. Erkan Baş, segretario generale del Partito Comunista del Popolo di Turchia sarà, dopo lungo tempo, l’unico parlamentare “comunista”. Oltre a lui ci sono diverse nuove facce provenienti dai partiti socialisti come: Ridvan Turan, Musa Piroglu, Dilsad Canbaz, Oya Ersoy, Murat Cepni e Tulay Hatimogullari. C’è un parlamentare anche del mondo del sindacalismo, Kani Beko, il segretario generale del sindacato confederale Disk. Tra i nuovi parlamentari si trovano anche alcuni giornalisti come Enis Berberoğlu, Ahmet Sik e Tayip Temel.

Purtroppo nella nuova formazione parlamentare ci saranno soltanto diciassette donne. Tuttavia tra queste ce n’è una molto particolare; Remziye Tosun, nata e cresciuta a Sur-Diyarbakir e una delle vittime degli scontri del 2015 in zona tra le guerriglie PKK e le forze armate dello Stato. Tosun rimase intrappolata nella sua abitazione per circa cento giorni insieme ai suoi figli, per un po’ anche sotto le macerie di casa sua, e fu arrestata con sua figlia di due anni rimanendo in carcere per quattordici mesi. Tosun, in un’intervista rilasciata al portale di notizie Gazete Karinca, racconta così la sua candidatura: «Il mio obiettivo è quello di non far dimenticare ciò che è successo a Sur e portare avanti la battaglia per difendere i diritti e le vite della popolazione di Sur anche nel parlamento».

Guardando i risultati si capisce il fatto che la Turchia sia un paese ancora molto polarizzato con numerosi problemi radicali e molto importanti.

Tuttavia queste elezioni hanno dimostrato che ci sono ancora milioni di persone che credono in un cambiamento. Le forze di alcune opposizioni devono dialogare di più, trovare delle basi comuni guardando il passato e facendo i conti con la storia del paese. Il voto di quindici milioni di persone per un ex insegnante di fisica e circa cinque milioni di voti per un candidato avvocato in carcere hanno un significato particolare.

Esattamente quello che esprime in una sua poesia la poetessa Birhan Keskin:

“Qui poso un po’ di giorni di speranza.
Per ora sembrano lontani,
ma chissà, magari presto ci arrivi e li tocchi.”

Questo articolo è stato pubblicato qui

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