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"Tre manifesti a Ebbing, Missouri": delitti e silenzi della provincia americana

Ebbing, Missouri: Mildred Hayes (Frances McDormand), divorziata e con un figlio a suo carico con il quale, tra l’altro, i rapporti non sono idilliaci, è una donna distrutta dall’omicidio della figlia Angela, stuprata, uccisa e data alle fiamme su una vecchia strada periferica della cittadina. Visto e considerato che da circa un anno la polizia locale brancola nel buio, Mildred affitta tre vecchi cartelloni pubblicitari sulla stessa strada teatro dell’assassinio per affiggere tre manifesti riportanti tre domande rivolte al capo della polizia, lo sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson). Nonostante le richieste di quest’ultimo di rimuovere i manifesti, Mildred continua la sua battaglia affinché la verità e l’omicida vengano alla luce. Ma ciò non fa altro che attirare su di sé l’ira dell’intero dipartimento di polizia, in particolare quella di Jason Dixon (Sam Rockwell), agente razzista, rissoso e con problemi di alcolismo.

Giunto al successo con interessanti opere cinematografiche come In Bruges – La coscienza dell’assassino e 7 psicopatici, il commediografo britannico di origini irlandesi Martin McDonagh è tornato dietro la macchina da presa per Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, 2017), black comedy caustica che si incrocia con il dramma. Messe da parte le crisi esistenziali di killer su commissione e il pulp violento, umoristico e metacinematografico, alla sua quarta regia McDonagh mette in immagini una storia attuale (considerati i casi di cronaca nera reale), ovvero quella di un caso irrisolto in cui, le uniche vittime, restano quelle che si sono trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Assimilata la lectio stilistica e contenutistica della filmografia di Joel ed Ethan Coen, capaci come pochi di raccontare il provincialismo americano e il suo lato sporco e violento più recondito, McDonagh, fin dalle battute iniziali di Tre manifesti, espleta quella che è la costante dell’intero film: una annichilente disperazione senza soluzione alcuna.

Al di fuori degli sprazzi di black humour e degli inserti da commedia al vetriolo, Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film di denuncia senza peli sulla lingua, un diretto j’accuse contro quelle microcomunità a metà strada tra l’urbano e il rurale nelle quali, a insinuarsi e sibilare come un serpente, sono razzismo, xenofobia e inettitudine verso chi, in teoria, dovrebbe essere protetto e servito dalle autorità competenti. Eppure tutto questo nel nuovo lungometraggio del regista di In Bruges non c’è, semmai viene plasmato l’imperituro e privo di censure affresco di una società corrotta e marcia fin dentro il midollo. La crociata personale di Mildred, una donna segnata dall’orribile perdita della figlia e dalle continue vessazioni non solo famigliari ma di un’intera comunità, non è altro che un crescendo di scene, senza edulcorazioni o filtri alcuni, dirette a mostrare il campionario di quella umanità retrograda e ottusa, capace di mettere una pietra sopra ogni cosa affinché la tranquillità regni per il bene comune della piccola cittadina tutta. L’atto di ribellione posto al centro delle vicende di Tre manifesti non si limita – solo ed esclusivamente – a mera metafora filmica ma, piuttosto, si concretizza in un allarmante messaggio volto a mettere in guardia gli onesti e ligi nei confronti di un sistema legislativo e giuridico, a volte, fallato e inapplicabile.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri non è solo la ricerca della verità e di un colpevole da parte di una madre privata violentemente dall’affetto filiale, bensì è un vero e proprio atto di coraggio che consegna allo spettatore l’immagine grottesca di uno Stato depauperato dalla giustizia, di quell’ordine che dovrebbe assicurare – sempre – eque e imparziali punizioni verso chi si macchia dell’altrui sangue innocente. Non è una casualità che Martin McDonagh abbia ambientato Tre manifesti nel Missouri, in uno Stato del sud degli Stati Uniti d’America, quello stesso “sud” delle leggi razziali, della segregazione e della violenza senza senso verso l’estraneo (non mancano, di fatto, echi cinematografici provenienti da Mississippi Burning di Alan Parker). La piccola cittadina di Ebbing straborda di pregiudizi arcaici avallati da una mentalità limitata e di altri tempi, resa ancor più spiazzante dall’insistenza della macchina da presa, mediante panoramiche e carrellate, sulla natura (quasi) immobile fatta di colline, montagne, prati, fiumi e alberi, una sorta di mondo altro pietrificato e che assurge a metafora di luogo – par excellence – ancestrale e brutale in cui a valere è solo il più forte (o il più scorretto).

In questo eterno scontro tra onestà e disonestà l’ago della bilancia, tuttavia, non pende da nessuno dei due lati, rimanendo super partes e – così – sospendendo il giudizio. Tra capi della polizia segnati da drammi personali e che preferiscono gesti estremi invece che sopportare il dolore di una malattia e il peso dell’opinione pubblica, agenti xenofobi ed ottusi bravi a defenestrare ma poco inclini al ragionamento che, bensì, solo dopo aver provato sulla propria pelle la rabbia altrui cercano una via per la redenzione e madri coraggio capaci anche di giocare sporco pur di raggiungere i propri obiettivi, Tre manifesti a Ebbing, Missouri si conferma come lucida e attuale riflessione sulla società odierna. In mezzo a momenti introspettivi e scoppi di violenza, Martin McDonagh dipinge un quadro composto da delitti e silenzi della provincia americana, lasciando spazio a quella impellente necessità di dare la caccia all’untore e, parimenti, applicare una personale giustizia sommaria che, quando niente e nessuno sembra arrivare a capo della soluzione, si trasmuta in una disperata e agghiacciante ricerca di un capro espiatorio, in modo tale di mettere a tacere gli spettri interiori ed esteriori.

Con un cast in stato di grazia e abbruttito appositamente (composto da una Frances McDormand mai così intensa, un Woody Harrelson magnifico e un Sam Rockwell folle e che fa da trait d’union all’intero film) una regia asciutta, una sceneggiatura impeccabile e una fotografia eccellente, Tre manifesti a Ebbing, Missouri è – parafrasando il titolo stesso – un manifesto di impegno civile, scomodo e crudo che, senza remora, ha il coraggio di spiattellare allo spettatore quella che è la reale contemporaneità della società creata da e in cui vive l’uomo postmoderno.

Commenti all'articolo

  • Di vittorio (---.---.---.57) 24 gennaio 2018 16:57

    Il suo racconto/commento è grammaticalmente corretto; peccato però che non colga il senso, suggerito dal regista non solo nel finale : persino individui grossolani, volgari, diseducati da una ignoranza di base provinciale che li rende razzisti (ma lo dichiarano, anziché occultarlo fingendo buonismo come parecchi europei) possono alla fin fine volere la pace.
    Questo è un segnale positivo che andrebbe percepito e sottolineato.

    P.S. Non sono né critico cinematografico, né giornalista, né frequentatore del Festival di Venezia, né intellettuale di destra o sinistra, ma un semplice spettatore che ama andare al cinema quando pensa ne valga la pena e ama riflettere su ciò che ha visto

    • Di Francesco Grano (---.---.---.148) 24 gennaio 2018 18:25
      Francesco Grano

      Gentile Vittorio,


      La ringrazio per aver letto il mio articolo e per avermi educatamente segnalato questa piccola lacuna presente tra le mie righe. Diciamo pure che ho voluto limitare appositamente tutti gli aspetti del film per evitare spoiler a chi, magari, ancora non ha avuto modo di vederlo. Tuttavia, in una mia particolare affermazione, in parte ciò che Lei ha indicato è riportato: "agenti xenofobi ed ottusi bravi a defenestrare ma poco inclini al ragionamento che, bensì, solo dopo aver provato sulla propria pelle la rabbia altrui cercano una via per la redenzione [...]". Naturalmente la sua attenzione non può che farmi piacere, sperando di averLa nuovamente tra i miei lettori.

      Un cordiale saluto

      Francesco Grano 

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