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Tra emergenza sanitaria ed emergenza del diritto – 2

di Vitalba Azzollini

Era stato anticipato che nuovi provvedimenti sarebbero potuti seguire a quelli già emanati, e così è stato. Nella serata dell’11 marzo il presidente del Consiglio ha annunciato che le limitazioni già varate sarebbero state inasprite e che misure ulteriori avrebbero potuto essere adottate in prosieguo:

[…] in un Paese grande, moderno, complesso, come il nostro, bisogna procedere gradualmente affinché tutti possano comprendere il difficile momento che stiamo vivendo e anche predisporsi per accettare i cambiamenti richiesti.

A fronte di questa affermazione, serve domandarsi se decisioni “politiche”, volte a contrastare un’emergenza sanitaria, non vadano assunte su basi scientifiche che attestino ciò che si deve fare e i tempi in cui lo si deve fare, specie se si tratta di limitare fortemente le libertà personali. E, soprattutto, se tali limitazioni alle libertà sono statuite da

[…] decreti del Presidente del Consiglio (…) sottratti a qualsiasi controllo preventivo, dato che non sono emanati dal Presidente della Repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame parlamentare. Il Presidente del Consiglio diventa quindi una specie di dictator, abilitato a stabilire effettivamente quali limitazioni dei diritti fondamentali possono essere adottate. 

La giustificazione di far abituare a poco a poco la gente al cambiamento delle proprie abitudini lascia perplessi anche in quanto potrebbe comportare costi, in termini di salute, maggiori dei benefici della accettazione graduale. Senza parlare del fatto che provvedimenti di vario rango, emanati a breve distanza l’uno dall’altro e contenenti prescrizioni diverse, rischiano di ingenerare confusione, più che “abitudine”.

Ma andiamo oltre, provando a verificare la “tenuta” normativa del decreto del presidente del Consiglio dell’11 marzo scorso. Tale dpcm dispone la chiusura delle attività commerciali al dettaglio, fatta eccezione per le “attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità individuate nell’allegato 1” in maniera molto puntuale. Se, da un lato, queste prescrizioni precise sono finalizzate a evitare l’insorgere di equivoci interpretativi circa i negozi operativi, dall’altro lato possono comunque ingenerare altro tipo di dubbi.

Infatti, il nuovo decreto, oltre a indicare le attività che restano aperte, lascia comunque vigenti le disposizioni del decreto precedente (il dpcm del 9 marzo scorso che richiama il dpcm del giorno prima) inerenti alla possibilità di spostamento delle persone in ipotesi particolari. In base a tale decreto, il fine dello spostamento – «comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero (…) per motivi di salute» (pur con le ambiguità e i dubbi già esposti circa la commistione fra divieti assoluti, forti raccomandazioni e inviti) – ne qualifica la legittimità.

In altre parole, muoversi è consentito dalla legge solo nei tre casi indicati. Eppure sui social network alcuni si chiedono se il fatto che una serie di negozi continuino a restare aperti consenta sempre e comunque di uscire da casa per recarsi in uno di essi. La risposta è no: lo spostamento per andare in uno di quegli esercizi aperti non è giustificata per default. Perché se è vero che si tratta di negozi utili alla gestione della vita quotidiana – pure ai tempi del coronavirus serve acquistare lampadine, sostituire un elettrodomestico che si rompe e nutrire gli animali domestici – la norma che prevede le tre ipotesi nelle quali è permesso uscire continua a prevalere.

In altri termini, la lunga e articolata elencazione delle attività che proseguono a operare non consente a chiunque di richiamare un altrettanto lungo e articolato elenco di alibi di “necessità” per autocertificare la deroga alle norme in tema di permanenza presso il proprio domicilio. Tale interpretazione è ribadita dalla circolare del ministro dell’Interno del 12 marzo, in linea con quanto già disposto dal decreto del presidente del Consiglio:

Per quanto riguarda le situazioni di necessità, si specifica che gli spostamenti sono consentiti per comprovate esigenze primarie non rinviabili (…)

Insomma, anche andare al supermercato non è sempre una “necessità”. E se la menzionata elencazione degli esercizi commerciali aperti rischia di rendere ancora più discrezionale la valutazione, da parte dei soggetti preposti ai controlli, dei motivi dell’uscita da casa, il criterio delle “comprovate esigenze primarie non rinviabili” deve essere l’unico adottato dai cittadini, e senza dubbio alcuno.

In tema di controlli vale la pena aggiungere che, data l’esigenza assoluta che le disposizioni di legge siano rispettate, il 12 marzo scorso il ministro dell’Interno ha disposto che pure i militari possano fermare chi circola in strada, in applicazione del decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, secondo cui:

[…] al personale delle forze armate impiegate, previo provvedimento del prefetto competente, per assicurare l’esecuzione delle misure di contenimento…è attribuita la qualifica di agente di pubblica sicurezza.

Quello del Viminale è un provvedimento molto grave, e ciò induce ancora una volta a ribadire che non si può lasciare a norme e sanzioni, spesso di non chiara interpretazione, a cavilli giuridici conseguenti, a forze dell’ordine e militari il contenimento di una malattia infettiva che affligge il globo da settimane. Resta la responsabilità individuale. Ancora una volta, bisogna farvi appello.


Questo post è la naturale continuazione del precedente. Una legislazione emergenziale per approssimazioni successive, che “prende la mira” sotto l’incalzare degli eventi e delle indicazioni scientifiche conseguenti. L’ambiguità semantica delle prescrizioni, pur in presenza di precisa elencazione delle fattispecie di attività commerciali funzionanti, serve a fornire la “necessaria flessibilità” ai soggetti incaricati dei controlli, per graduare l’eventuale approccio repressivo in funzione della situazione sul campo, sia dal lato delle esigenze di controllo sanitario che delle condotte dei cittadini. Ma questa flessibilità ha un costo, che probabilmente oggi appare contenuto di fronte alla gravità della situazione, ma che potrebbe diventare elevato nel futuro, se questo modo di normare dovesse divenire parte della quotidianità. Ecco perché Vitalba reitera l’invito alla responsabilità individuale: per non ritrovarsi tutti meno liberi, quando questa emergenza sanitaria sarà terminata. (MS)

 
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