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Tour de France: la meglio gioventù

Nell'anno della pandemia di Covid-19 – che ad un certo punto sembrava che dovesse portare all'annullamento della corsa – s'impone per la prima volta un rappresentante della Slovenia, Tadej Pogačar, che alla vigilia del 22° compleanno si aggiudica il Tour con 59'' sul connazionale P. Roglic, scalzandolo dalla vetta nella cronoscalata della penultima tappa (in cui gli rifila 2', recuperando i 57'' di svantaggio).

 Pogacar in tal modo infrange il record di precocità di E. Bernal (che in questa edizione è stato l'ombra di sé stesso), prenotando un futuro idilliaco, per lui e per la nouvelle vague del pedale. Per l'Italia è una Gran Boucle molto opaca: zero tappe, zero emozioni, zero onore.

 

SE A TRIONFARE E' LA NOUVELLE VAGUE

L'anno scorso a prevalere era stato il colombiano Egan Bernal, che, andando contro la tradizione, si era imposto a soli 22 anni e mezzo, un'età che da tutti era considerata a dir poco acerba per certi traguardi. L'apoteosi precoce del sudamericano sembrava destinata a rimanere un'eccezione, di quelle che si sarebbero presto smarrite fra i ricordi degli appassionati, ma a quanto pare siamo stati tratti in inganno. In questa edizione, infatti, si è registrata l'incoronazione di un corridore nemmeno 22enne (gli anni li avrebbe festeggiati all'indomani della conclusione della corsa gialla), Tadej Pogačar, sloveno della UAE Team Emirates, che ha conquistato il Tour de France 2020 – la cui disputa era stata messa in forse a causa della pandemia del Covid-19 – surclassando quasi tutta la concorrenza, divenendo il secondo più giovane di sempre ad aggiudicarsi la corsa dopo Henri Cornet (che nel remoto 1904, a soli 19 anni, se l'era vista consegnata a tavolino a seguito della squalifica di Maurice Garin). Alla luce della seconda affermazione consecutiva di un under '23, sembra proprio che il Giro di Francia stia abbassando drasticamente i...tempi d'attesa per l'agognato trionfo del campione di turno, imboccando una direzione che sino a pochi anni fa pareva del tutto impensabile e fuori da ogni coerenza con la “costumanza” del ciclismo moderno. Sarà merito delle preparazioni, sempre più innovative e...tecnologiche; sarà che si sta sviluppando, per così dire, un inedito coraggio ad osare da parte dei team, sempre più impazienti di lanciare (badando a non far linciare) in orbita i propri talenti e le proprie promesse. O sarà che si sta pian piano degradando il livello qualitativo dei vari contendenti (o competitors che dir si voglia): per intenderci potremmo essere alle prese col classico periodo di transizione che in genere precede l'avvento di un gigante. Di certo siamo a conoscenza degli effetti ma non delle cause. D'altronde non è per niente agevole emettere sentenze credibili, tanto più se concernenti un lasso temporale estremamente esiguo, come può essere un biennio, rappresentante appunto il presunto nuovo corso del ciclismo. Eh sì, perchè sino all'apoteosi di Bernal alla Gran Boucle del 2019, l'età media di chi riusciva a guarnire il proprio palmares di codesta gara era decisamente in linea con passato, in cui anche un M. Indurain o un B. Hinault non si affacciavano dal balcone regale prima di una certa età. Limitandoci al terzo millennio, andando a ritroso nel tempo si può constatare quanto segue: nel 2018 si fregiò dell'agognato trionfo il gregario di C. Froome, G. Thomas, a 32 anni; proprio Froome aveva inaugurato la sua “gioielleria” nel 2013, a 28 anni, cogliendo l'ultima delle sue 4 gemme a 32 primavere, la stessa età che nel 2012 aveva il suo allora capitano B. Wiggins quando festeggiò sui Campi Elisi; V. Nibali nel 2014 si era esaltato a 29 anni; C. Evans nel 2011 addirittura si era spinto ben oltre i 30: 35! Insomma, Bernal e Pogacar hanno inaugurato senza il minimo preavviso quella che potrebbe essere una nuova tendenza volta a premiare le new generation in luogo dei veterani del gruppo. O, molto più semplicemente, può darsi che si siano limitati a plasmare un fugace intermezzo per campioni in erba, senza la pretesa supplementare di aver inaugurato un nuovo corso, tanto meno di rivoluzionare le leggi non scritte del ciclismo, quelle, per capirci, che prima del trionfo al Giro francese prevedono un lungo periodo di rodaggio. Quello stesso rodaggio cui si sono dovuti sottoporre campioni del calibro di L. Bobet, E. Merckx, M. Pantani, C. Froome e tanti altri.

CON POGACAR C'E' POCA GARA

Certo, impressiona non poco vedere un 22enne, perdipiù esordiente al Tour, non tanto possedere una completezza...in ogni reparto, ma soprattutto esibirla con una saggezza ed una visione prospettica che stride con la sua giovanissima età. Nella sfida tutta slovena con il più accreditato P. Roglic – condottiero per gran parte della corsa gialla – baby Tadej è rimasto sempre alle costole del capitano della Jumbo, senza mai forzare più del dovuto. Avrebbe potuto tentare qualche sortita avventata, ma evidentemente l'intelligenza (o la gamba) gli ha suggerito di non farsi ingolosire da certe montagne, centellinando sapientemente le energie, senza rischiare di andare fuori giri in anticipo sulla tabella di marcia, accontentandosi di rimanere “affiancato” al suo rivale in attesa dell'ultima decisiva asperità, in cui verosimilmente confidava moltissimo, per una tattica sobria che lo avrebbe trainato in cima al Giro di Francia. Nella cronoscalata che portava la carovana a La Planche des Belles Filles, in effetti il corridore sloveno è finalmente uscito allo scoperto, gettando la maschera che sino a quel momento celava il volto feroce di chi aveva deciso di artigliare la preda ad ogni costo, sprigionando tutta la propria energia distruttiva, quella stessa potenza che “Poga” sino alla vigilia della 20^ tappa aveva tenuto in ghiaccio, per poi estrarla dal freezer delle sue ambizioni nel momento più opportuno. Il momento della gloria.

Per quanto riguarda i colori italiani, stendiamo un velo pietoso. Se i corridori azzurri avessero deciso, per pudore, di disertare la corsa francese, avrebbero senz'altro fatto una figura più decorosa...

 

 

Alberto Sigona

22 settembre 2020 “dopo Cristo”

 

 

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