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Tornare al passato sarebbe un suicidio

I numeri sono incerti. Secondo i dati ufficiali, la pandemia avrebbe ucciso finora 33.000 persone e in quanto ai disoccupati, senza il blocco dei licenziamenti, sarebbero già più di 4 milioni. Quanti precari e lavoratori al nero siano finiti o finiranno sul lastrico è impossibile dire, ma anche in questo caso il conto va fatto in milioni.

 
Nella penosa incertezza che regna sovrana, l’esperienza maturata in questi terribili mesi un punto fermo sembra offrirlo: il virus non si limita a uccidere le persone, ma uccide il lavoro e ciò che esso significa in termini di qualità della vita. Se le cose stessero così, si potrebbe pensare – e questa pare purtroppo la linea prevalente – che, superata la pandemia e avviate efficaci politiche economiche, pur tra lacrime e sangue, lentamente comincerebbe il recupero. Si tratta purtroppo di una visione delle cose che un punto debole ce l’ha ed è decisivo: parte dall’aggressione del virus e non considera che, in realtà, prima di aggredire l’uomo, il virus è stato probabilmente aggredito.

Prendiamo per esempio le foreste, che costituisco l’habitat specifico per l’80% della biodiversità terrestre: milioni di specie, molte delle quali non conosciamo, virus compresi. Poiché tra ambiente e specie esiste un equilibrio prezioso, che funge da autentico antivirus, la deforestazione non solo priva l’uomo di una naturale protezione per la sua salute, sempre più indebolita dall’inquinamento, ma costringe le specie coinvolte a cercare un nuovo habitat, favorendo così fatalmente la diffusione dei virus e le pandemie. Quando apriamo strade nella foresta, entriamo incontriamo animali selvatici di cui spesso raccogliamo la carne, costruiamo villaggi in territori selvaggi, entriamo in stretto contatto con nuovi virus, che mutano e si adattano rapidamente alle nuove condizioni e ai nuovi ospiti. E’ andata così con l’Ebola e con l’AIDS, che ha fatto finora molti milioni di morti.

Questi dati sono certi. Privi di risposte sono ancora numerose domande finora trascurate dalla Scienza. Quello che è accaduto nella Pianura Padana e soprattutto in Lombardia – i territori più inquinati d’Europa – ha avuto una forza e un’evidenza tali, che la comunità scientifica ha dovuto interrogarsi. Al momento, uno studio pubblicato da “Science Direct” e una ricerca dell’università di Harvard, hanno riconosciuto all’elevato livello di inquinamento del Nord Italia, in particolare alle polveri sottili, un ruolo nell’elevato tasso di mortalità di questa zona. Entrambi gli studi sono sottoposti a verifiche, ma una smentita appare a dir poco improbabile.
Alla luce di tutto questo, discutere i sette punti chiave del piano per la ripresa dopo l’emergenza coronavirus, presentato da Conte in una lettera al “Fatto Quotidiano” e al “Corriere della Sera”, esclusivamente in termini di europeismo, populismo, e altre questioni del genere sarebbe perdere tempo.

Certo, i termini reali della proposta che l’Unione Europea avanzerà con Recovery Plan, hanno un interesse decisivo per il nostro Paese. Tuttavia, quali che essi siano, si trattasse anche di soldi da non restituire, pensare di utilizzarli senza porre al primo posto il risanamento dell’ambiente e la transizione verso un’economia sostenibile, seguiti a ruota dal massimo sostegno alla scuola e alla ricerca, vorrebbe dire non aver capito qual è il problema all’ordine del giorno. Qui non si tratta di uscire dalla tragedia per tornare al vecchio modo di produzione e all’ormai inaccettabile incuria per l’ambiente malato. Il problema vero è chiede soluzioni opposto: costruire un modello alternativo a quello che ci ha condotti alla tragedia che viviamo e che, ripristinato, ci ricondurrebbe in breve alla situazione da cui vogliamo uscire.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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