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The Upper House: Texas, il boccone più ghiotto

Ottavo appuntamento con la rubrica curata da Luciana Grosso e dedicata alle sfide più delicate e avvincenti delle elezioni senatoriali di novembre

di Luciana Grosso

 

Il prossimo 3 novembre, negli Stati Uniti, non si vota solo per la Presidenza. Si vota anche per 35 seggi al Senato e per il rinnovo completo della Camera dei Rappresentanti. La cosa non è secondaria, anzi: senza un Congresso dalla sua parte, il Presidente può incontrare grandi difficoltà nel suo mandato.

La gara più serrata è al Senato perché lì i numeri sono molto ristretti: ogni Stato dispone di due senatori indipendentemente dalla popolazione, per un totale di 100 Senatori. Attenzione però: il Senato si rinnova solo per un terzo, perché si vota ogni due anni e ogni Senatore rimane in carica sei anni.

In queste settimane Luciana Grosso ci racconta allora le sfide più delicate, avvincenti e cruciali per diventare o restare Senatore degli Stati Uniti e, di fatto, avere nelle mani il destino di milioni di persone.

Oggi siamo in Texas, ottava tappa del nostro viaggio oltreoceano.

Ed eccoci qui, alla puntata più corposa e complicata di The Upper House. Eccoci al boccone più ghiotto e importante di tutte le elezioni, allo stato che è il Sacro Graal della politica americana: il Texas. Tutti lo vogliono, tutti lo inseguono, tutti lo corteggiano. Questo per varie ragioni.

La prima è che il numero dei grandi elettori che lo stato esprime, 38, è il più corposo di tutta l’Unione, secondo solo a quello della California (che ne esprime 55).
La seconda sta nel fatto che è uno stato con un PIL altissimo (2.000 miliardi, poco sotto i 3.000 miliardi della California: se il Texas fosse una nazione avrebbe la decima economia più grande del mondo, pari, praticamente, a quella del Brasile).
La terza, squisitamente politica, è che il Texas da cinquant’anni è inespugnabile: un blocco di granito repubblicano. E repubblicano nella versione più dura e pura: armi, suprematismo bianco, economia privata, carcere duro alla minima infrazione (specie se commessa da neri o da latini), nessun interesse per l’ambiente (cosa aspettarsi da uno stato produttore di petrolio?) o per i diritti civili. L’ultimo democratico a vincere qui è stato Jimmy Carter, ma si trattò più di un incidente della storia che di una reale vittoria.

La quarta ragione per cui il Texas è cruciale – e per cui i democratici lo vogliono più di qualsiasi cosa al mondo – è che se i 38 grandi elettori texani si sommassero ai 55 (già sicuri per i democratici) della California, le elezioni per i Dem potrebbero diventare una specie di formalità e la loro vittoria, con 93 voti sicuri su 538, praticamente scontata. Non lo dico solo io, lo ha detto anche poche settimane fa il senatore repubblicano del texas Ted Cruz: “If dems win Texas, it’s over”.

 

 

 

 

 

Per queste ragioni, essenzialmente, quando si parla di elezioni il Texas è lo stato più importante di tutti. Perché chi vince prende tutto. E perché chi controlla il Texas controlla una montagna di soldi, una gigantesca fetta dell’economia americana, della sua industria, del suo tessuto produttivo.

 

Il Texas: capirlo, prima di tutto

Se vi piace l’America, allora, per forza, vi piace anche il Texas.
Perché con il suo cielo, la sua polvere, le sue bistecche da due chili, le sue bandierone fuori dai patii delle villette, i suoi fucili e le sue pistole, è America all’ennesima potenza. È America senza bugie, senza compromessi, senza alibi. America nel senso più profondo e autentico del termine. America più America di tutto il resto.

Anche se per indole, posizioni politiche o cultura vi sentite lontanissimi dalle pistole, dai cowboy fuori tempo massimo e dal conservatorismo di petrolio, bistecche e cappelli Stetson del Texas, per abbracciare l’America, tutta l’America, è da qui che bisogna passare. Perché anche se l’America che vi (ci) piace è quella delle opportunità e della libertà, quella della democrazia e del sogno americano, quella cantata da Bob Dylan, occorre fare i conti anche con quella parte di America che ha declinato questi concetti senza sconti e senza sfumature: economia di mercato portata agli estremi, uguaglianza che vale solo per alcuni, diritto alla difesa e alla libertà che assomiglia molto alla legge delle giungla, estremo conservatorismo condito con la religione. Questo è, in estrema sintesi, il sogno americano in salsa texana.
Non sto dicendo che la cosa mi piaccia. Sto dicendo che non si può essere selettivi, quando si parla di America. Sto dicendo che l’America non è solo la ‘Land of Hopes and Dreams’ che canta Bruce Springsteen, ma anche la terra di maschi bianchi e armati raccontata dai cantanti country. Non esiste l’una senza l’altra. E non ci è dato scegliere quella che più ci piace. Sono l’una parte e conseguenza dell’altra. Non esiste Barack Obama senza George W. Bush. Non esiste Richard Nixon senza Lyndon Johnson. Non esistono hipster newyorkesi senza cowboy texani. Non esiste frontiera senza confine. Non si può amare il dogma americano della libertà senza comprendere l’insofferenza verso ogni, seppur minimo, potere di uno Stato centrale.
L’America è così: prendere o lasciare.

 

Roccaforte repubblicana

In linea di massima, dagli anni ’70 ad oggi, le elezioni presidenziali in Texas sono una faccenda piuttosto scontata: vincono i repubblicani. Anche al Senato le cose tendono al rosso conservatore: uno dei due seggi (quello lasciato vacante da Lyndon Johnson, volato a Washington per fare il vicepresidente nel 1960) è repubblicano da allora; l’altro ha avuto vicende un po’ più alterne ma, di fatto, è stabilmente repubblicano dagli anni ’90. Lo stesso vale per i governatori: l’ultima Dem a guidare lo stato è stata Ann Richards, eletta nel 1990. Poi, dal 1994 in poi, anno in cui è stato eletto Governatore George W. Bush, sono stati votati solo candidati repubblicani.
Le ragioni e la storia che hanno portato il Texas, in questi anni, a essere così radicatamente e radicalmente repubblicano sono, grossomodo, le stesse già viste in altri stati del Sud – come la Georgia o l’Alabama – e risalgono alla guerra civile. L’economia del Texas fino alla metà dell’800 era basata sulle piantagioni e sugli schiavi. Dopo la guerra civile, quel tipo di mondo fu spazzato via, e dalle macerie che ne restarono emersero solo odio e rancore sia verso i neri che verso il partito che li proteggeva, il partito repubblicano di Abraham Lincoln. Per questo, dal 1865 agli anni ’60 del secolo scorso, il Texas aveva votato il partito più razzista e segregazionista sulla piazza, ossia il partito democratico, e in particolare la sua corrente più vicina al suprematismo bianco e al Ku Klux Klan (il Dixiecrat). Poi, quando sotto la guida del (guarda tu i casi della vita) texano Lyndon Johnson, il partito democratico rinnegò la sua parte razzista e sposò a pieno la causa dei diritti civili dei neri, il Texas si sentì, di nuovo, tradito e rinnegato. Così, con altrettanta radicale forza, si spostò in blocco sul partito repubblicano, che nel frattempo era cambiato, trasformandosi da ‘partito degli schiavi’ in ‘partito dei bianchi’. E, soprattutto, si era trasformato in quel che i texani amavano di più: il partito delle imposte basse, dell’intervento statale ridotto al minimo (vicino all’indifferenza), dell’iniziativa privata e della libertà – che se ti va bene è libertà, se ti va male è legge della giungla.

 

Qualcosa che cambia

Per tutte le ragioni dette fin qui, da anni, ormai, le elezioni in Texas sono le grandi osservate speciali del voto negli USA, siano esse locali o nazionali. In teoria, visto che il radicamento del partito repubblicano è così profondo e l’esito del voto praticamente scontato, non dovrebbe essere così. Avete mai visto tanto interesse per le elezioni a New York o in California? No, perché lì difficilmente potrebbe succedere qualcosa di imprevisto. In Texas, invece, da qualche anno qualcosa si muove.
Lo stato sta diventando purple, ossia ‘viola’, colore misto tra il rosso repubblicano e il blu democratico. Lo stato sta diventando un posto nel quale vincono ancora i repubblicani, ma con sempre maggiore fatica, in modo sempre meno scontato. Non solo: da qualche tempo, i democratici portano a casa qualche vittoria. San Antonio, per esempio, ha avuto come Sindaco il democratico Julian Castro. La città di Austin anche è democratica. Nel 2016 il vantaggio di Trump su Clinton fu inferiore, in Texas, a quello registrato in stati meno repubblicani come l’Iowa; nel 2018 Beto O’ Rourke ha condotto una eccellente campagna per il Senato contro il repubblicano di lungo corso Ted Cruz, e solo per un soffio non ha vinto (51 a 48: il margine più ristretto da più di trent’anni).

Sulle ragioni per cui il Texas stia diventando purple si sono versati fiumi di inchiostro, ma alla fine, stringi stringi, sono essenzialmente tre.

Il primo è figlio diretto del repubblicanesimo spinto dello stato: il fatto che il Texas sia da anni uno stato ‘rosso’ ha fatto sì che sia oggi uno degli stati con le imposte più basse dell’Unione e, di conseguenza, anche uno degli stati con i servizi pubblici e sociali più scadenti. Il che significa che se qualcuno, per una ragione qualsiasi, perde il lavoro o ha difficoltà economiche o di salute o legali (in America basta niente per svegliarsi poveri) in buona sostanza rimane perfettamente solo. E dunque tende ad ascoltare le sirene e le promesse del partito democratico che dice di rivolgersi, prima di tutto, alla tutela di chi è rimasto indietro.

La seconda ragione è che il Texas è uno stato con una percentuale sempre crescente di giovani e uno di quelli con l’età media più bassa (34,8 anni). E i giovani, almeno in America, tendono a votare democratico.

Infine, la popolazione del Texas sta cambiando: ci sono sempre meno bianchi e sempre più latinos. E anche se, politicamente, i latinos non sono compatti come gli afroamericani, una buona parte di loro vota democratico.

Per questo il Texas è ogni giorno sempre un po’ meno repubblicano: perché ci sono sempre più poveri, sempre più giovani e sempre più immigrati. Il che, a voler fare un po’ di sociologia spiccia, è curioso: perché poveri, giovani e immigrati sono esattamente le categorie sociali che, dal ‘700 in poi, hanno creato e costruito gli Stati Uniti d’America.

 

La corsa per il senato 2020: John Cornyn, il repubblicano superfavorito

I sondaggi per le prossime presidenziali danno il Texas, per la prima volta da anni, come ‘in bilico’. In teoria, secondo le rilevazioni, è comunque in vantaggio Donald Trump, anche se con un margine assai ristretto (attorno al 3%).
Al contrario, per il Senato non ci dovrebbe essere partita, e la rielezione del senatore di lungo corso John Cornyn (è stato eletto la prima volta nel 2002) appare piuttosto scontata.
Le ragioni sono tante, ma volendo riassumerle in una possiamo dire questo: Cornyn non è Trump. Attenzione però: questo non significa che sia un repubblicano moderato (non lo è nemmeno un po’ e comunque non esistono i moderati in Texas), ma solo che è un repubblicano vero. Cornyn è infatti convinto che il riscaldamento climatico sia una bufala, che più armi ci sono in giro meglio è per tutti, che l’esercito deve essere il più potente possibile, che i matrimoni omosessuali siano un’aberrazione e dovrebbero essere un crimine. Sono posizioni che possono piacere come non piacere, ma sono quelle del partito repubblicano.
Donald Trump, invece, che pure ha assunto e sposato tutte queste posizioni, non è un repubblicano nel senso più profondo del termine. Trump fa da sé. Trump non lavora per un partito o per un gruppo, lavora per sé. Dice quel che gli passa per la testa e che potrebbe portargli vantaggio. E questa cosa qui, ai texani, non piace. O meglio, non piace a tutti. E quelli a cui non piace potrebbero votare Cornyn al senato e Biden (o nessuno) alle presidenziali.

 

La sfidante democratica che corteggia i repubblicani

Per la corsa in Texas, i democratici hanno scelto una strategia simile a quella adottata in un’altra roccaforte repubblicana, il Kentucky: candidare una donna (cosa che piace alla sinistra) ma anche una veterana di guerra (cosa che potrebbe ingolosire, o quantomeno non respingere, i repubblicani). Funzionerà? Probabilmente no, né in Texas, né in Kentucky. Ma è un tentativo: un tentativo negli stati più difficili di sbilanciare il partito verso il centro, di dare l’assalto all’elettorato moderato, di presentare una figura fuori dagli schemi e trasversale. La candidatura di MJ Hegar va in questo senso: eroina ferita decorata della guerra in Afghanistan, si è arruolata nella Guardia Nazionale, dandosi da fare a cercare piantagioni clandestine di marijuana e a salvare boschi e foreste dagli incendi. In condizioni normali sarebbe una candidata troppo di destra per i democratici e troppo di sinistra per i repubblicani. Ma, l’abbiamo detto, questo è il Texas. Qui non ci sono condizioni normali. C’è solo il Texas.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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