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The President - da Dio e dal vostro presidente

La punizione più giusta per un tiranno: ridurlo alla condizione dei suoi sudditi, fargli condurre la loro vita, con le stesse difficoltà e penurie, niente più palazzi e scorte di guardie, né limousine o aerei, niente più bardature né lusso, niente più “Altezza reale” e “Vostra maestà”. Questo accade al protagonista del film, un immaginario “presidente” di uno stato immaginato ma molto simile a tirannìe esistenti che il regista ben conosce. 

Mohsen Makhmalbaf (da ricordare, tra gli altri, Viaggio a Kandahar e Il voto è segreto del 2001) non vive più a Teheran dove nacque 57 anni fa. Lavora in Afghanistan e in Francia - lo racconta egli stesso - e sa ben rappresentare “personaggi che da lontano fanno paura ma che da vicino appaiono grotteschi e ridicoli” o “un dio caduto nell’inferno che ha costruito per il proprio popolo”; parole sue alla conferenza stampa di presentazione del nuovissimo film proiettato per la sezione Orizzonti  alla 71ma Mostra del Cinema a Venezia, The President.

All’inizio del film viene mostrata la strada centrale della capitale di questo Stato immaginario, illuminata a giorno per celebrare la grandezza del suo presidente, le periferie misere sono altra cosa e si vedranno nel prosieguo. Una voce dagli altoparlanti declama la grandezza di quel Paese, opera di “Dio dal cielo e del nostro Presidente dalla terra”: l’accostamento tra divinità e potere ha fatto nella storia rispettare o temere di più quest’ultimo. Il “presidente” mostra al suo nipotino cosa egli può fare dall’alto del suo palazzo, come ad esempio far spegnere e poi riaccendere le luci della città con un semplice cenno. Dopo vari tentativi questo “gioco” non riesce più, le luci non si riaccendono, i sudditi sono stanchi, frustrati da tante angherie e si ribellano.

“Questo Paese ha le ore contate” viene detto, la famiglia presidenziale o reale fugge in aereo e il “presidente” resta solo con l’affezionato nipotino di 5-6 anni, che crede di poter tornare al palazzo e che prende gli imprevisti come un gioco (questo ricorda “La vita è bella” di Benigni). La loro limousine dapprima è bloccata dai dimostranti che lo cercano, poi da un gregge di pecore che la accerchia, si travestono da poveretti, il nipotino non sa nemmeno come pulirsi dopo la cacca, non l’ha mai fatto, neanche il nonno s’è mai sognato di dovergli pulire il sedere. Gli scempi e i delitti che vedranno nella loro fuga sono come un viaggio nelle viscere infime del Paese che il tiranno guidava col terrore, in quel peregrinare si accompagneranno perfino a dei “detenuti politici” ora fuggiti dalle prigioni.

Il presidente-dittatore apprende che dai sudditi era ritenuto “un codardo come i suoi soldati”, che infatti l’hanno presto abbandonato. Il bambino arriverà presto a dire “Non mi piace questo gioco”. Nei suoi 115 minuti il film è scorrevole e senza stasi, satirico e tragico insieme, con riprese che documentano le azioni come dal vivo. Non meraviglierebbe che ricevesse qualche riconoscimento a Venezia. Viene spontaneo un parallelo tra la vita che conducono molti nostri politici, che nella politica hanno scoperto un piccolo eldorado e perciò si sono appressati a quel “mestiere”, e le condizioni dell'"uomo qualunque”. Oltreché una giusta pena per il dittatore, il regista - ancora parole sue - ha voluto suggerire di “non dare per scontata la libertà” ma anche, alla resa dei conti finale col “presidente” riconosciuto dai sudditi in rivolta, che una nuova democrazia non dovrebbe basarsi sulla vendetta.

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