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Tagli, amore e libertà

"Quasi tutti i mali del nostro presente, come della nostra storia recente, nascono dallo scarso amor di libertà: dal non porre la libertà tra gli obiettivi delle nostre azioni; dal non riconoscerle un valore supremo".

Trovavo irresistibile la simpatia di Luciano De Crescenzo e non mi vergogno affatto di dire che il suo “I pre-socratici” è stato il primo libro di filosofia che abbia acquistato con i miei denari e, soprattutto, che abbia capito. In una sua opera e poi nel film che ne fu tratto, De Crescenzo esponeva però la più sbagliata delle idee. Secondo lui amore e libertà, per dirla col bardo, “non vanno a braccio / E muor un quando l’altro crescer vede”.

No, non è affatto così; non c’è amore che non nasca dalla libertà. Nulla di vero, onesto, meritevole, può nascere dalla negazione della libertà. Un amore che non nasce dalla libertà non è tale; non è fondamenta di una cattedrale, ma rifugio o, più spesso, prigione.

Quasi tutti i mali del nostro presente, come della nostra storia recente, nascono dallo scarso amor di libertà: dal non porre la libertà tra gli obiettivi delle nostre azioni; dal non riconoscerle un valore supremo.

La libertà, anzi, è per tanti di noi oggetto di scambio; quella di voto, quanto quella personale sacrificate all’illusione della sicurezza. La genuflessione al potente di turno, la ricerca della raccomandazione e del favore, i cancri cha hanno devastato la nostra comunità nazionale, che hanno serrato l’orizzonte a generazioni di giovani, che hanno prodotto l’orrida classe dirigente di cui tutti ci lamentiamo, non hanno nulla a che vedere con alcuna forma d’amore, neanche con quello per la famiglia di cui molti si riempiono la bocca; sono prodotto di relazioni di scambio che può giudicare convenienti solo chi alla libertà non è stato educato. Accettabili solo per chi, e non importa se sia cavaliere o commendatore, quanto grande sia la sua casa o lunga la sua auto, è intimamente, profondamente, plebeo.

La chiusura delle infinite gilde e corporazioni in cui è divisa la nostra società, la loro stessa esistenza, non è affatto una misura della solidarietà dei loro componenti; nasce dallo scambio tra l’adesione ad un sistema di regole, scritte e non, che limita le proprie possibilità di crescita professionale, e la sicurezza di mantenere quel che si ha e che, per solito, si ha ereditato. Sono steccati e paletti eretti, a difesa dell’orticello avuto in concessione dal padrone, da servi della gleba che s’illudono di essere altro.

Tagli e manovre potranno garantire la nostra sopravvivenza alla prossima ondata, ma non serviranno a molto, se non ritroviamo la nostra autostima; se non arriviamo a convincerci di aver solo da guadagnare dalla libertà, perché nella libertà potremmo fare al meglio quel che meglio sappiamo fare, fosse anche zappare la terra, e che questo sarà sufficiente a guadagnarci la serenità, se non la felicità.

Non so quale rito di passaggio dobbiamo compiere, né se basterà la sberla di questa crisi a farci comprendere quale presente miserabile, magari con piscina ed aria condizionata, ci siamo costruiti, ma sono certo che qualcuno dovrebbe urlare effatà, l’apriti che Gesù disse al sordomuto e che il vescovo ripete ai cresimandi, nelle orecchie di ognuno di noi.

E' proprio la nostra chiusura, infatti, a nasconderci le soluzioni ai nostri problemi e a farci mancare le opportunità da cogliere per tornare a crescere; è dal grado di apertura al mondo che si misura la maturità, degli individui come delle società, e della compiuta maturità condizione e premio ultimo è la libertà.

Questo, per poco che sia, è quel che so veramente.

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