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Suicidi: vittime della crisi? Intervista all’antropologo Felice Di Lernia

Uno degli argomenti più scottanti degli ultimi tempi è quello dei suicidi: imprenditori e lavoratori (qui i dati della Cgia di Mestre) che decidono di togliersi la vita sopraffatti dalla crisi. I social network sono piene di storie che rimandano elenchi e nomi e date. La crisi sembra stia mietendo davvero le proprie vittime.

Ma siccome la “crisi” è un termine che ultimamente sta giustificando qualsiasi pratica, così come “l’Europa ce lo chiede” come ci ricorda Di Lernia alla fine dell’intervista, noi abbiamo provato ad andare oltre, o meglio, alla fonte, interrogando un antropologo, sul fenomeno dei suicidi. Il suo contributo è, per quanto scientificamente pregnante, poco sorprendente: la società è troppo veloce e quindi qualcuno non riesce a mantenere la pressione e decidere di scendere dalla giostra in movimento, ma quello che in realtà è illuminante, delle sue parole, è che la “cura” scelta per limitare i danni, sembra sia più pericolosa della malattia stessa.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.251) 14 giugno 2012 11:30

    Mmmh, non so. L’idea dell’accelerazione della società, oltre ad essere trita, potrebbe benissimo essere sostituita da molte altre: la perdita progressiva di empatia, il suicidio rituale o il suicidio altruistico, la "patologizzazione" del fallimento, la teoria dei rifiuti e la crisi del consumismo e così via, di cui l’antropologia è stracolma, passando dalla medica alla culturale. 
    Inoltre, l’idea della "società tradizionale - lentezza" non mi convince. E’ vero che in una società più piccola, più contenuta e più radicata nella sua tradizione esistono più sistemi di contenimento delle crisi, ma soprattutto per via della vicinanza fra le persone e le reti di solidarietà (e non sempre da considerarsi in termini di altruismo disinteressato), non certo per via della "lentezza" che non è, in questo caso, un valore misurabile perché i cambiamenti non sempre sono strutturali e non riguardano tutti.
    Voglio dire: il suicidio è diffuso anche nelle società "tradizionali" come rimedio per una colpa commessa o un’onta subita, allora si potrebbe parlare della colpevolizzazione del fallimento e del suicidio come espiazione e sulla carta sembrerebbe un’idea altrettanto valida. 
    Mi sembra molto fuffosa quest’intervista. 

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