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Suicidi in carcere, una piaga che va arginata

Oltre mille detenuti morti negli ultimi dieci anni. Venticinque suicidi in cella dall’inizio dell’anno. I numeri, per quanto impressionanti, non rendono l’idea dell’immane tragedia che si consuma quotidianamente nelle carceri italiane. Le gravi condizioni in cui versano gli istituti penitenziari conquistano di tanto in tanto qualche pagina di cronaca. Ma nei piani alti si continua a far poco o niente per risolvere annose questioni concernenti la giustizia e i servizi che lo Stato dovrebbe garantire ai carcerati.

Grazie ai dati ufficiali forniti dal Ministero della Giustizia, e a quelli non ufficiali raccolti dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti, si riesce ad avere un quadro abbastanza preciso e aggiornato sul numero di vittime all’interno delle sovraffollate mura carcerarie. Solo quest’anno sono morti 75 detenuti, di cui 25 suicidi (senza contare i diversi tentativi di suicidio sventati).

19 Suicidi in carcere 2012 Suicidi in carcere, una piaga che va arginata

Al di là delle fredde statistiche ci sono svariati motivi per cui un recluso decide di togliersi la vita. Uno di questi è il trattamento delle malattie invalidanti all’interno delle carceri italiane: molto spesso i detenuti affetti da infermità sono tenuti nello stesso reparto, la qual cosa raddoppia lo sconforto di chi non solo deve fare i conti con lo sconto della pena, ma deve anche specchiarsi quotidianamente nella sofferenza dei compagni.

Il fattore più destabilizzante resta comunque quello della mancanza di prospettive dei carcerati. Molti si tolgono la vita a causa della eccessiva lunghezza dei processi, che durano anni prima di arrivare a una sentenza definitiva. Così accade che persone totalmente innocenti siano detenute per un tempo irragionevole e decidano di farla finita, marchiati dalla società come “colpevoli” solo per aver ricevuto un avviso di garanzia o sentenze non definitive.

Ma la mancanza di prospettive si nota anche in quelle strutture carcerarie in cui i detenuti non vengono impiegati in attività utili al loro reinserimento nella società una volta scontata la pena. L’assenza di un’organizzazione che miri a rieducare il detenuto porta spesso a compiere l’insano gesto del suicidio o in prossimità della scarcerazione – per paura di affrontare un mondo a cui non si è più abituati – o nei giorni immediatamente successivi all’arrivo nella casa circondariale.

Alla già gravissima situazione finora delineata si aggiunga la carenza di personale medico e di altri importanti professionisti come gli psicologi e gli educatori: in tale contesto risulta impossibile garantire la necessaria assistenza ai detenuti, molti dei quali alle prese con disturbi psichici o affetti da seri problemi di tossicodipendenza che andrebbero trattati in appositi centri specialistici.

Tornando ai numeri: lo scorso anno i morti in carcere sono stati 186; di questi, ben 66 sono suicidi. L’età media di chi ha deciso di togliersi la vita in cella è di poco inferiore ai 38 anni. A suicidarsi, soprattutto tramite l’impiccagione (44) e l’inalazione di gas butano (12) sono stati in stragrande maggioranza uomini (64) e solo due donne, ma è un dato abbastanza in linea con le proporzioni dei due sessi nelle strutture penitenziarie (le donne rappresentano il 4,3% del totale dei reclusi). I detenuti suicidi nel 2011 sono stati più italiani (45) che stranieri (21), la gran parte condannata in via definitiva (28) o ancora in attesa di primo giudizio (27). Anche in questo caso, comunque, la proporzione tra italiani e stranieri suicidi in relazione al totale dei detenuti è mantenuta.

Per evitare che nel 2012 si ripeta o si aggravi un quadro già di gran lunga drammatico, bisognerà correre ai ripari facendo innanzitutto prevenzione, attivando studi approfonditi sulle cause dei suicidi e favorendo una maggior apertura e cooperazione tra tutti gli addetti delle strutture carcerarie.

Di Giuseppe Ceglia

Questo articolo è stato pubblicato qui

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