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Strasburgo: gli effetti inintenzionali dei media

Strasburgo – Alle 19.50 dell’11 dicembre 2018 un uomo armato di pistola e coltello, al grido di “Allah Akbar”, apre il fuoco contro i passanti in Rue des Orfèvres, nei pressi di un tradizionale mercatino natalizio.     

di Cesare Giordano                        

Trascorrono poche decine di minuti e iniziano a circolare i primi video amatoriali dell’accaduto. In una strada del centro, piena di negozi e addobbi natalizi, le urla dei passanti che fuggono disperati sono interrotte dalle esplosioni, paralizzanti, di colpi d’arma da fuoco. Per terra il corpo di un uomo.                                           

Le immagini sono sconvolgenti. Eppure, qualche ora dopo, la sensazione è di un qualcosa di già visto, un déjà vu, in cui lo sconvolgimento e l’incredulità iniziali sono rimpiazzati da un’assurda percezione di normalità. Nella mente affiora la scia di attentati che ha colpito l’Europa negli ultimi anni e così quelle stesse immagini, per quanto inattese e strazianti, sfumano in un’amara ordinarietà.

Dunque nulla di nuovo, se non una rinnovata attenzione mediatica per quei fatti di terrore che, prima di Strasburgo, i media parevano aver imparato a “tacere”. In effetti, appena sette mesi fa, il 29 maggio 2018, un uomo al grido di “Allah Akbar” aveva ucciso due poliziotte e un automobilista nella cittadina di Liegi e, diciassette giorni prima, il 12 maggio 2018, a Parigi un altro “terrorista” aveva attaccato con un coltello i passanti, uccidendo una persona e ferendone altre otto. Il format delle loro azioni era simile a quello di Strasburgo così come lo era il numero di vittime in ciascun attentato. Tuttavia l’attenzione mediatica accordata all’attacco di dicembre ha superato notevolmente quella dei precedenti attacchi. Basti confrontare, per esempio, le prime pagine dei quotidiani il giorno seguente gli attentati di Strasburgo, Liegi e Parigi e si avrà subito contezza del differente spazio dedicato ad essi. In un caso la notizia domina la prima pagina, mentre negli altri due è presentata marginalmente, quando non assente.

 Quali siano le ragioni di tali scelte redazionali, è difficile a dirsi. Tuttavia è utile chiedersi se l’enfasi mediatica per i fatti di Strasburgo possa essere funzionale o meno e, soprattutto, a chi.

 Consideriamo innanzitutto il “grande” pubblico, cioè quella maggioranza di persone che vive gli attentati come una minaccia alla propria incolumità. In tal caso è utile ricordare che l’insidia degli attacchi non deriva, almeno non solamente, dal numero di vittime che essi producono, ma dalla creazione di uno stato di terrore nella popolazione, che vede come incombente la minaccia terroristica. I recenti attentati, infatti, non hanno causato un numero cospicuo di vittime e, sebbene il valore di ogni vita sia incommensurabile, esso è notevolmente inferiore a quello prodotto da altri fenomeni sociali, come quello degli incidenti stradali. Tuttavia è possibile, ad esempio, che molti cittadini belgi all’indomani dell’attentato nella metropolitana di Maalbeek (Bruxelles) siano stati terrorizzati dall’idea di prendere la metro, ma non abbiano avuto alcun timore nel prendere l’auto di proprietà, un mezzo certamente più “letale” della comune metro. La ragione di ciò, come ben mostrato dall’economia comportamentale, è che l’uomo sovrastima la probabilità di quegli eventi disponibili nella mente (euristica della disponibilità) ed emotivamente salienti (euristica dell’affetto). In questa prospettiva l’enfasi mediatica sviluppatasi attorno all’attentato di Malbeek (il tempo destinato alla notizia, la posizione nel palinsesto e il modo in cui essa è raccontata) ha imposto ripetutamente (disponibilità) al pubblico immagini inquietanti e sconvolgenti (emotività), distorcendo marcatamente al rialzo la stima del rischio di un nuovo attentato. Tal enfasi non è invece comunemente riservata ai casi d’incidenti stradali che, sfortunatamente per il pubblico, finiscono con l’essere sottostimati, quando non ignorati. Dovrebbe quindi essere evidente come un racconto enfatico e sensazionalista degli attentati, così come accaduto nel caso di Strasburgo, possa alimentare il terrore nella popolazione, fornendo peraltro un assist involontario ai terroristi, il cui obiettivo è esattamente “terrorizzare”.

 Consideriamo ora il pubblico dei “potenziali terroristi”, cioè quelle persone che incubano fantasie terroristiche o che potrebbero subirne la fascinazione.

Semplificando, si tratta di soggetti che vogliono “farla finita” attraverso un finale hollywoodiano in chiave antisistemica, in altre parole attraverso un ultimo, clamoroso atto antisociale travestito da martirio. Per questi individui è fondamentale che le loro azioni ottengano visibilità. Mohamed Bouhlel, ad esempio, pochi giorni prima di realizzare a Nizza il suo eclatante piano omicida, avrebbe detto a un amico, riferendosi alla moglie: «Sentirà presto parlare di me!». Gli aspiranti attentatori sono quindi smaniosi di visibilità e purtroppo, nella maggior parte dei casi, la ottengono. Nel caso di Strasburgo, infatti, la notizia dell’attentato ha monopolizzato il sistema mediatico, guadagnandosi l’apertura dei TG, le prime pagine dei quotidiani, gli speciali sui più importanti canali nazionali, oltre alle dirette radiofoniche e all’incontenibile rimbalzo su tutti i social media. Una cassa di risonanza enorme per l’azione di Cherif Chekkat, che agli occhi di un aspirante terrorista non può che anticipare l’assoluta visibilità, che gli sarà accordata dalla “società”.

 Pensiamo inoltre al modo in cui spesso i media descrivono gli autori degli attentati, utilizzando etichette suggestive, in grado di evocare significati simbolici attraenti per gli aspiranti terroristi.

Consideriamo, ad esempio, quella di “lupo solitario”, più volte utilizzata dai media per riferirsi a Cherif Chekkat. Malgrado essa sia usata per indicare un attentatore che agisce senza aver alcun collegamento con un’organizzazione terroristica, la sua portata semantica va ben oltre questo. Nel caso di Chekkat, infatti, l’immagine del “lupo solitario” ha trasformato l’azione di un avventato omicida, socialmente emarginato, che “uccide per morire”, in quella di un astuto predatore (il “lupo”), che può e sceglie di fare a meno del branco (“solitario”) e che uccide per sopravvivere.

 L’omicida di Strasburgo, inoltre, è stato descritto dai media esteri come un caso di “Jihadi Gangster”, un’etichetta utilizzata per riferirsi a quei jihadisti che emergono dagli ambienti della criminalità. Chekkat, infatti, aveva ben ventisette condanne per reati che riguardavano violenze, furti e traffico di droga. Tuttavia analizzando la sua carriera criminale, si scopre che nel 2011 era stato condannato a due anni e sei mesi per aver aggredito un minorenne con un coccio di bottiglia durante una rissa e, in Germania, aveva scontato una pena per una rapina a una farmacia, realizzata con un cacciavite e fruttatagli appena 315 euro. Crimini senza dubbio gravi, ma c’è da chiedersi se tutto ciò faccia di Chekkat un “gangster” o piuttosto un criminale comune di bassa lega, in termini tecnici un patologico antisociale.

C’è da chiedersi, inoltre, se Chekkat possa ritenersi un jihadista. Se da un lato, infatti, era stato segnalato come soggetto radicalizzato e durante l’attacco aveva riferito di voler vendicare i morti in Siria, dall’altro, la sua azione era avvenuta poche ore dopo che alcuni poliziotti avevano tentato di arrestarlo per una precedente rapina, aggravata dall’estorsione e da un tentato omicidio. Non possiamo quindi escludere che il suo attacco sia stato concepito di rimbalzo alla prospettiva di un’imminente detenzione, peraltro lunga vista la fattispecie dei reati contestatigli e la sua recidività. Si tratta ovviamente di una tra le possibili ricostruzioni. Ma se fosse così, dovremmo scartare l’ipotesi di un attacco di matrice jihadista e considerare Chekkat non un Jihadi Gangster, ma un criminale disperato che, privato di ogni prospettiva se non quella della detenzione, ha scelto il copione dell’attentato per porre fine alla propria vita. Non prima, però, di aver trascinato con sé degli “infedeli”, avventori di un mercatino natalizio, la cui unica “colpa” era di appartenere a quella “società”, che gli aveva negato la libertà.

 Cherif Chekkat non era quindi un Jihadi Gangster né era opportuno definirlo un lupo solitario, a prescindere dal suo collegamento o meno con un’organizzazione terroristica. Eppure nei media è invalso l’uso di tali etichette che, non solo falsano semanticamente la natura degli attentatori, ma offrono un “personaggio” attraente agli aspiranti terroristi, caratterizzati il più delle volte da un marcato vuoto identitario e alla ricerca di un’identità antisistemica. Così la presentazione mediatica della figura del “Jihadi Gangster” o di quella del “lupo solitario” rivela ai potenziali attentatori un copione per interpretare la parte dell’eroe negativo, peraltro celebrata involontariamente dalla morbosa attenzione mediatica accordata agli attentati. I media finirebbero allora con l’offrire un “ruolo” e garantire “pubblico” agli aspiranti attentatori, cui non rimarrebbe che scegliere il “palco” su cui inscenare la propria spettacolare dipartita.

 Infine, cosa dire della natura suicida degli aspiranti stragisti e del possibile ruolo giocato dai media? Sappiamo, infatti, che la diffusione della notizia di un suicidio può innescare altri suicidi per emulazione. In sostanza le pulsioni suicidarie di alcuni individui potrebbero essere catalizzate dal comportamento suicida di altri soggetti, nei quali s’immedesimano e cui è data particolare risonanza mediatica. Ad esempio, la continua enfasi giornalistica sui suicidi nella metropolitana di Vienna causò un’epidemia suicidaria tra il 1984 e il 1987, anni in cui i casi di persone che decisero di togliersi la vita buttandosi dalla banchina della metro crebbero vertiginosamente. Sorge allora spontaneo domandarsi se l’enfasi mediatica sui casi di omicidio-suicidio al grido di “Allah Akbar” abbia contribuito a determinare l’inedita scia di attentati degli ultimi anni.

 Non rimane allora che porsi un ultimo, contro-fattuale interrogativo. Come sarebbe evoluta la recente ondata di attentati e quale sarebbe stata la percezione pubblica della loro minaccia se i media avessero “silenziato” i fatti di terrore, anziché enfatizzarli?


* Alcuni tra gli argomenti sviluppati nell'articolo sono tratti dal saggio di Cesare Giordano (2018), "Lupi solitari. I percorsi della radicalizzazione e le strategie di prevenzione", Edizioni Altravista, Pavia.                                                               

Questo articolo è stato pubblicato qui

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