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Stati Generali dell’Esecuzione Penale, ma senza rappresentanza dei detenuti

 

Avevo molto fiducia quando il Ministro della Giustizia aveva istituito gli Stati Generali dell’Esecuzione della Pena. Ed ero contento che si tornasse a discutere di galera, a fare ricerca e a pensare ad alternative migliori che murare vive le persone in una cella. Adesso un po’ meno, perché non ci può essere nessuna “rivoluzione” se sono esclusi, o relegati in un cantuccio, i prigionieri dalle discussioni sulle riforme carcerarie.

Ebbene, sono stati formati diciotto tavoli. Sono stati nominati i responsabili che coordineranno i lavori. E scelte le persone che faranno parte di questi gruppi. E i detenuti? Si vocifera che saranno “ascoltati”. Provo rammarico per questa scelta di partecipazione passiva che è toccata ai prigionieri. Eppure c’è già una legge che prevede una costituzione della rappresentanza dei detenuti (articolo 31 dell’ordinamento penitenziario) chiaramente diretta a promuovere forme di partecipazione e di responsabilizzazione dei prigionieri. Penso che questa norma, per analogia, poteva essere applicata per coinvolgere in modo ufficiale e attivo la popolazione detenuta sui lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione della Pena.

Credo che i detenuti non si dovrebbero accontentare solo di vedere i loro diritti spesso calpestati nelle polvere, ma li dovrebbero pretendere proprio per migliorarsi e crescere. Penso che il carcere dovrebbe valorizzare le energie, l’intelligenza, le capacità e la disponibilità dei suoi detenuti. Credo che l’importante evento degli Stati Generali sul carcere e sulla pena avrebbe potuto dare l’occasione ai prigionieri di migliorare e portare legalità nelle nostre “Patrie Galere”.

Penso che, con la partecipazione diretta e con un ruolo ben definito, i prigionieri avrebbero potuto spiegare meglio di altri cosa si prova a non poter scambiare un bacio, una carezza in intimità, con la propria compagna, la propria madre e con i propri figli, per anni e anni.

I prigionieri avrebbero potuto spiegare perché per molti detenuti vale di più la morte che la vita quando alcuni preferiscono impiccarsi tra le sbarre della loro tomba piuttosto che vivere. E perché sia così difficile rimanere umani quando ti chiudono dentro una cella, per un quarto di secolo, a doppia mandata e buttano via le chiavi. Gli ergastolani avrebbero potuto raccontare com’è faticoso per loro vivere con una pena sulle spalle che finisce con la morte. I detenuti deportati avrebbero potuto spiegare cosa si prova ad essere “impacchettati”, messi in un blindato e sbattuti lontano dalla propria terra, dalla propria famiglia, che per ovvie ragioni di distanza e finanziari vedranno raramente.

Alcuni detenuti avrebbero potuto rivelare che hanno costruito molti carceri in Sardegna per dare la territorialità del lavoro (e non della pena ai detenuti) alla polizia penitenziaria, perché la maggioranza di loro è sarda. Poi è ovvio che per un prigioniero è difficile, molto complicato, avere fiducia in uno Stato ed in una giustizia che non rispetta le sue stesse regole.

Io credo che il senso di giustizia possa cambiare in meglio un prigioniero, ma l’odio e la vendetta lo fanno diventare più cattivo.

Buon lavoro a tutti i protagonisti degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e a quei pochi detenuti che forse verranno “ascoltati” come si fa con i topolini negli esperimenti scientifici.

 

Qui la replica di Mauro Palma, Marco Ruotolo e Adolfo Ceretti su Ristretti Orizzonti. 

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