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Spese militari, un settore che non conosce crisi

di Marco Magnano (*)

Il rapporto Milex 2018, presentato giovedì 1 febbraio, mostra che la spesa militare italiana ha ripreso a crescere dal 2015 dopo anni di stallo. Intervista con Enrico Piovesana, che ha curato il rapporto.

Presentato il 1 febbraio, il rapporto Milex 2018 sulle spese militari italiane offre ogni anno la possibilità di valutare le tendenze in corso nelle scelte di bilancio dei nostri governi. L’edizione 2018, liberamente consultabile sul sito dell’Osservatorio Milex, racconta di un’Italia che ha accelerato sulle proprie spese nel campo della Difesa, ma c’è dell’altro: nel rapporto, infatti, si ragiona anche sugli F-35, un investimento che finora ha raccolto più critiche che ordinativi, e i costi della “servitù nucleare” legata alle spese di stoccaggio e sorveglianza delle testate atomiche tattiche americane B-61 nelle basi italiane, che costano 23 milioni ogni anno soltanto per l’aggiornamento delle apparecchiature di sorveglianza esterna e dei caveaucontenenti le venti testate all’interno degli undici hangar nucleari della base bresciana.

Il settore della Difesa, dunque, vive un evidente trend di crescita, come racconta Enrico Piovesana, che ha curato la stesura del rapporto insieme a Francesco Vignarca, della Rete Disarmo. «Nelle ultime tre legislature, quindi dal 2006 a oggi» racconta «abbiamo avuto una fase di forte crescita fino alla crisi del 2008, poi, mentre tutte le altre voci di spesa pubblica si contraevano, c’è stata una stabilizzazione, mentre dal 2015 si è entrati in una nuova fase di crescita. Il bilancio preventivo del 2018, sottolineo preventivo perché a consuntivo c’è sempre un ritocco verso l’alto, parla di 25 miliardi di euro, quindi un 4% in più rispetto al 2017, mentre rispetto al 2015 parliamo quasi del 9%. È una crescita che è stata avviata dal governo Renzi e proseguita con il governo Gentiloni, una dinamica che, vista nell’ottica delle ultime tre legislature, ha visto una crescita del 26%, quindi davvero forte. Se esaminata in termini di rapporto tra la spesa e il Pil, anche qui c’è un evidente aumento: si era partiti da un 1,2% rispetto al Pil nel 2006 e siamo ormai all’1,4/1,5%, a seconda di quello che saranno poi le effettive performance dell’economia italiana del 2018».

Eppure siamo ancora lontani dal 2%, che è la quota che la Nato, di cui facciamo parte, continua a chiedere. È possibile che ci si arrivi un giorno?

«Il 2% della Nato è inverosimile, al punto che la stessa Difesa italiana dice che è impossibile arrivare a quel livello, perché vorrebbe dire aumentare le spese militari di 10/15 miliardi l’anno, cosa che tutti i Paesi europei sanno bene che non verrà mai raggiunto. Eppure, la tendenza di crescita sembra prendere a pretesto il soddisfare i parametri Nato, sia per quanto riguarda le spese militari in generale, sia per quanto riguarda il solo bilancio della Difesa, che è comunque di 21 miliardi di euro e che ha segnato un +3,4% nell’ultimo anno».

A che cosa serve una spesa militare del genere per un Paese come il nostro?

«È la domanda che si dovrebbero porre i nostri decisori politici in maniera molto chiara. Lasciando da parte l’ottica disarmista e pacifista e ragionando soltanto in termini di efficiente strumento di difesa militare di un Paese membro della Nato, sono gli esperti i primi a criticare questo aumento fatto tanto per aumentare. Non dimentichiamo che la Grecia è al 2,5% sul Pil e sappiamo bene in che condizioni versa, parliamo di uno Stato sempre sull’orlo del fallimento, però per vari motivi è stata costretta ad aumentare le spese militari, acquistando armamenti, in particolare dalla Germania, in cambio di sostegno e aiuto. Le logiche sono molto diverse rispetto all’esigenza di sicurezza nazionale, che invece è scarsamente affrontata, perché comprare centinaia di carri armati e blindati, oppure decine e decine di cacciabombardieri nucleari strategici, una seconda portaerei, decine di fregate lanciamissili, ecco, dotarsi di questo gigantesco arsenale bellico non ha nessun senso per quello che sono le esigenze di sicurezza italiana».

Sempre mettendo da parte l’ottica pacifista, quali dovrebbero essere i campi in cui investire?

«Sostanzialmente due: il terrorismo e la cybersecurity. Per il terrorismo qualcosa che si sta mettendo in moto, anche se molto lentamente, visto che ci sono Paesi che spendono miliardi in questo settore, mentre l’Italia ha cominciato solo ora a pensarci. Dal punto di vista della cyberdifesa, invece, siamo al punto zero, perché non abbiamo nessun tipo di struttura in grado di difendere quegli stessi armamenti che compriamo: se compro un F35 che costa 150 milioni di euro con un sistema che può essere hackerato, come dimostrano gli ultimi allarmi del Pentagono, è evidente l’assurdità della cosa, quindi per quanto riguarda le esigenze di sicurezza nazionale italiana queste spese militari sono completamente fuori scala e legate a logiche industriali e commerciali di quel complesso militare e industriale che da decenni, non solo in Italia peraltro, detta le spese militari».

Alla presentazione del rapporto ha partecipato anche Daniel Högsta, direttore della campagna ICAN, insignita del premio Nobel per la pace nel 2017. L’Italia non possiede testate nucleari proprie, ma voi sottolineate la presenza sul nostro territorio di servitù nucleare. Che cosa si intende?

«La servitù nucleare italiana è un segreto di Pulcinella: dagli anni Sessanta a oggi l’Italia partecipa alla “missione nucleare americana”, come viene chiamata dal Pentagono, prestando il proprio territorio per stoccare una parte dell’arsenale atomico americano e pagando per la sua protezione. L’Italia infatti paga per la protezione di questi ordigni che sono stoccati in due basi, quella americana di Aviano e quella italiana di Ghedi, nel bresciano. Oggi sono un po’ diminuite, ne rimangono una ventina, ma il problema è che sono testate che fino alla guerra fredda hanno avuto una semplice funzione simbolica, di deterrenza, ma con la nuova dottrina nucleare del presidente Trump, che afferma il potenziale concreto uso delle armi atomiche tattiche, la base nucleare di Brescia e quella di Aviano diventeranno attivamente usate per lo stoccaggio e l’uso dei nostri aerei, oggi Tornado e domani F35, come bombardieri nucleari, e dei nostri piloti che vengono addestrati per questo».

Quindi oggi a cosa servono le testate nucleari presenti in Italia?

«Esistono in funzione della preparazione di un futuro attacco nucleare contro quello che sarà il nemico di una fantomatica guerra atomica, che ovviamente nessuno vuole immaginare ma per cui stiamo spendendo e ci stiamo preparando. Il problema è che questo avviene in violazione non solo della Costituzione e dell’articolo 11, ma anche dei trattati di non proliferazione nucleare. È una servitù che rappresenta un vincolo obtorto collo per quella che è la situazione internazionale dei rapporti con l’alleato americano».

Un eventuale sviluppo del progetto di difesa comune europea potrebbe in qualche modo contenere le storture della spesa militare italiana?

«Ci sono luci e ombre. Sulla carta la cooperazione, almeno a livello di acquisti di armamenti, di navi, di aerei, invece che ogni Paese si fabbrichi e si compri e si finanzi il proprio carro armato, l proprio elicottero o la propria nave dovrebbe portare in teoria a dei risparmi. Nei fatti, però, da quello che si vede questa prospettiva di difesa europea si sta traducendo in un aumento delle spese militari centralizzate a livello europeo proprio per quanto riguarda il procurement, l’acquisto di armamenti. Insomma, non si va tanto verso un risparmio, se non a livello nazionale, ma a livello internazionale si va verso un aumento».

(*) Ripreso da riforma.it che è l’«organo di informazione delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia»

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