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Soleimani: i molti chiaroscuri di un attentato

Troppi aspetti contraddittori nelle ore successive allo strike che ha ucciso il generale di Teheran.

Cercare di analizzare a mente fredda il post attentato contro Qassem Soleimani non è solo difficile, ma è quasi impossibile vista la miriade di interessi contrapposti e ondivaghi che attraversano tutto il mondo islamico mediorientale e nordafricano da decenni.

Qualche considerazione però va fatta. La prima riguarda l’enorme difficoltà in cui sono finiti gli ayatollah di Teheran, obbligati a rispondere all'attacco americano per salvare la faccia davanti all’intero mondo musulmano, ma che, nello stesso tempo, non possono esagerare se non vogliono finire in una situazione senza vie d’uscita data la sproporzione evidente delle forze in campo.

Non a caso hanno sparacchiato un certo numero di missili a corto raggio su una base in Iraq – senza fare vittime secondo fonti americane, e anche secondo la nostra vice ministra degli esteri, Marina Sereni, intervistata a Tutta la città ne parla su Radio3 – ma rivendicando, a sentire invece la radio di stato iraniana, 80 caduti fra i soldati americani. 

Guerra di parole ai limiti dell’assurdo che rispondono a esigenze di comunicazione interna. Il popolo sarà forse già contento così, esaltandosi per la determinata risposta al terrorismo americano, ma il regime dovrà forse riflettere ancora su cosa gli è utile fare.

Intanto, secondo la CNN, l’Iran avrebbe addirittura preavvertito le forze americane in Iraq dell’attacco, come se la sceneggiata fosse stata studiata nei minimi particolari per non far alzare affatto la tensione fra i due paesi, pur salvando le apparenze. E fonti occidentali sostengono che l'Iran abbia deliberatamente evitato di colpire le truppe USA

I massimi dirigenti della Repubblica Islamica potrebbero aver concluso che è meglio fare così pur sapendo il prezzo politico che potrebbero dover pagare per questo; ma il vago sapore di una farsa tuttavia resta in bocca.

Resta però anche il fatto che il generale Qassem Soleimani, un uomo prudentissimo e capace di muoversi ovunque senza essere individuato dai suoi molti nemici, è stato davvero fatto saltare per aria. E con lui il capo degli Hezbollah iracheni Abu Mahdi al-Muhandis, responsabile secondo l'intelligence americana degli attacchi a varie basi USA in Iraq, fra cui quella di Kirkuk, dove a dicembre è morto un "contractor". E, per finire, responsabile anche dell’assalto all’ambasciata USA a Baghdad in piena zona verde di ipersicurezza.

Un uomo, da quanto si dice, non molto accorto nei movimenti. Rintracciabile quindi.

Due parole su di lui vanno dette: protagonista della lotta contro Saddam Hussein per conto dei Guardiani della rivoluzione iraniani, negli anni ’80 fu accusato di terrorismo e condannato da un tribunale kuwaitiano. In tempi recenti è stato vicecapo delle Forze di Mobilitazione Popolare, una organizzazione politico-militare sciita impegnata nella lotta all’Isis (e nella brutale repressione delle proteste dei giovani iracheni di piazza Tahrir).

Insomma uno di quegli attori protagonisti dello scontro a tutto campo delle forze alleate (e spesso subordinate) all’Iran, che agiscono sia contro la coalizione Occidentale che contro lo Stato Islamico, propaggine degli interessi arabo sunniti (e inizialmente anche turchi) a cavallo tra Iraq e Siria.

Un personaggio che, non a caso, è stato inserito nella lista dei terroristi da parte degli Stati Uniti, al contrario, checché se ne dica, di Qassem Soleimani.

Tutto ciò rende abbastanza credibile l’ipotesi avanzata da Paola Goldberger sul sito rightsreporter.org, che ha intervistato un anonimo esponente dell’intelligence israeliana. Il quale apre scenari sorprendenti e niente affatto peregrini, se solo si tiene in considerazione l’attività reale – al netto delle sbruffonate verbali – di Donald Trump in questi tre anni di presidenza.

Come ho già avuto modo di evidenziare in un articolo precedente il presidente americano è stato molto più prudente, nei fatti, dei suoi predecessori sia repubblicani (su tutti i Bush padre e figlio) che democratici. Far saltare in mille pezzi un generale iraniano non sembra congruo con il suo comportamento abituale.

E «questo attacco non rientra nel profilo d’azione del Presidente Trump» conferma infatti l’analista israeliano.

Non è quindi affatto cervellotica l’ipotesi che, in realtà, Soleimani sia stato ucciso per errore, come sostiene la fonte intervistata, solo perché si trovava inaspettatamente in compagnia proprio di al-Muhandis, il vero obiettivo a cui dava la caccia il drone USA.

Di fatto al primo tweet di Donald Trump, muto con la sola bandiera americana – postato alle 3,32 del 3 gennaio, ora dello strike all'aeroporto di Baghdad – ha fatto seguito un criptico tweet solo alle 13,40: "l'Iran non ha mai vinto una guerra, ma non ha mai perso un negoziato". E solo alle 14,54 – ben undici ore dopo l'attacco – un nuovo tweet che, finalmente, fa il nome di Soleimani.

Non sembrerebbe quindi un’improvvisa dichiarazione di guerra de facto all’Iran; perfino l'alleato israeliano, il più esposto a ritorsioni, non era stato informato e ne è stato sorpreso (non è strano se l'obiettivo era così drammaticamente alto?).

Incongruenze.

Si sarebbe trattato quindi “solo” dell’eliminazione mirata di un terrorista a capo di una fazione già responsabile di attacchi alla coalizione occidentale, tramutatosi all'improvviso – per un caso – in una specie di drammatico preludio a una guerra ben più vasta, ma non voluta. E forse nemmeno cercata.

Il che non cambia, sia chiaro, che si è trattato di un'azione inaccettabile, se effettuata senza l'accordo con il governo del paese ospite, di cui Muhandis era peraltro un collaboratore.

Ma questo quadro spiegherebbe la reazione, decisamente più blanda di quanto ci si aspettasse, del governo iraniano a cui forse potrebbero essere arrivati messaggi sottobanco dall'amministrazione americana.

In quest'ottica i vari tasselli di tutta la vicenda, che presi a sé sembrano lasciare molti dubbi, sembrano ricomporsi per disegnare un quadro che un suo senso sembra averlo. E molte incongruenze si dissolvono.

Se fosse andata davvero così il mondo non sarebbe stato spinto sull’orlo di un conflitto catastrofico per colpa di uno sconsiderato presidente dalla buffa capigliatura, come si poteva immaginare alle prime notizie, ma avrebbe solo bisogno di un altro po’ di fuochi d’artificio supplementari e di tanta prosopopea bellicosa dai due fronti contrapposti, giusto per non sfigurare davanti a chi sta seduto in poltrona a seguire l'incontro tifando per l'uno o per l'altro.

E andrebbe più che bene a tutti (a parte chi, nel frattempo, ha già perso l’unica vita che aveva nell'attentato o durante i funerali del generalissimo di Teheran).

Se invece non è così ­– l'analista israeliano potrebbe essere stato imboccato dal suo governo, interessato a far filtrare notizie farlocche per smorzare la tensione – oppure se altri, per proprio tornaconto, non vorranno ammettere che davvero è andata così, allora il conflitto si riaccenderà furibondo da qualche parte. In Iraq, in Kuwait, in Arabia Saudita, in Libano o in Israele. Innescando un tragica concatenazione di eventi incontrollabili.

Sarà la cronaca delle prossime settimane a smentire o confermare il vago senso di ottimismo che si respirava oggi.

Foto: Maryam Kamyab, Mohammad Mohsenifar/Wikimedia

 

 

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