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Sochi 2014: competere per l’ideale olimpico della dignità umana

Lo scorso dicembre, in occasione della conferenza stampa di fine anno, il presidente russo Putin ha annunciato la concessione della grazia alle Pussy Riot e a Mikhail Khodorkovsky. Ha dichiarato che gli attivisti stranieri di Greenpeace avrebbero potuto lasciare la Russia e che alcuni degli arrestati durante la manifestazione del 2002 in piazza Bolotnaya sarebbero stati liberati.

Putin ha dato il benvenuto in Russia agli omosessuali e dichiarato che durante i Giochi Olimpici Invernali di Sochi si potrà manifestare, organizzare incontri e cortei in una zona di sicurezza a dodici chilometri dalla città. Il suo volto rassicurante tranquillizza la comunità internazionale. Si avvicina l’inizio di Sochi 2014 e il regime cerca di ammorbidire la propria immagine.

È un espediente politico che però dura poco. Il 29 e 30 dicembre due attacchi suicidi a Volgograd hanno causato 34 morti; gli autori sarebbero estremisti islamici legati a Doku Umarov, uno dei principali comandanti ribelli in Cecenia.

Attentati da parte di gruppi armati continuano a verificarsi nel Caucaso del Nord e in altre regioni della Russia, con le forze di sicurezza che rispondono violando gravemente i diritti umani, con casi di persone scomparse, torture, esecuzioni extragiudiziarie, impunità.

Le combattive Pussy Riot, condannate a due anni di detenzione per aver cantato un inno di contestazione contro Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, continuano a denunciare le violazioni in Russia. In una lettera aperta dal carcere la Pussy Riot Nadezhda Tolokonnikova ha descritto le condizioni di sfruttamento delle detenute costrette a 16/17 ore di lavoro al giorno, terrorizzate, picchiate, trasformate in schiave mute.

Una volta liberata, l’altra componente Maria Alyokhina ha dichiarato: “Questa non è un’amnistia, è solo propaganda”, promettendo che le Pussy Riot continueranno a battersi per la difesa dei diritti umani, per una Russia senza Putin, per la tutela dei detenuti.

Anche la liberazione di Khodorkovsky è stata accolta con perplessità. Dalla Finlandia, Polina Zerebcova, “profuga di opinione dalla Russia”, ha scritto all’ex oligarca. Polina è nata nel Caucaso, a Grozny, e il 21 ottobre 1999 quando fu sparato un razzo sul mercato della città, fu colpita da sedici schegge:

...lei in un’intervista ha detto: ʻPutin non è un debole. Sono pronto a combattere per mantenere il Caucaso del Nord all’interno del Paese. Questa è terra nostra, l’abbiamo conquistata!ʼ. Ci pensi bene, perché così facendo le tocca condividere la responsabilità di quei crimini di guerra che nel Caucaso non rappresentano la conseguenza ma la sostanza stessa della conquista.

Negli ultimi due anni, per arginare le proteste contro i brogli elettorali durante le elezioni parlamentari e presidenziali del 2011 e 2012, sono state arrestate migliaia di persone, “ispezionate” più di mille Ong (Organizzazioni non governative), approvate e modificate leggi che limitano pesantemente la libertà d’espressione, riunione e associazione.

Sono le leggi che costringono le Ong che ricevono fondi dall’estero a registrarsi come “agenti stranieri” (e in Russia questo vuol dire dichiararsi spie), quelle omofobiche (che vietano la propaganda di relazioni sessuali non tradizionali tra i minori), le leggi che ampliano la definizione di “tradimento” e spionaggio, la legge anti-Magnitsky (che vieta le adozioni di orfani russi da parte di cittadini americani), quelle che limitano le proteste pubbliche, che criminalizzano la diffamazione, che puniscono la “blasfemia” (le Pussy Riot erano state condannate per “teppismo motivato da odio religioso”).

L’amnistia concessa da Putin ha interessato un numero molto esiguo di detenuti, e intanto gli arresti immotivati continuano. Il difensore per i diritti ambientali Evgeny Vitishko è stato condannato da un tribunale della regione di Krasnodar a tre anni di detenzione. Evgeny fa parte dell’Environmental Watch sul Caucaso del Nord (EWNC), una Ong russa attiva nella protezione dell’ambiente nella regione caucasica dal 1997. Si teme che la sua condanna sia legata alla sua attività di controllo sulle conseguenze ambientali causate dalle nuove strutture olimpiche. 

Giuliano Prandini per “Segnali di Fumo – il magazine dei diritti umani”

Questo articolo è stato pubblicato qui

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