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Se la delegittimazione è dello Stato

La delegittimazione è sempre stato un mezzo usato in politica per screditare un avversario politico. Ma è stato, ed è, anche un mezzo infamante, usato dalle organizzazioni criminali per screditare chiunque lottasse contro esse.
Delegittimare vuol dire togliere significato alle parole, alle azioni di qualcuno, da parte di chi quelle parole non condivide (per usare un eufemismo), vuol dire sviare l’attenzione dal punto focale.
 
Quando lo strumento della delegittimazione è attuato dal Presidente del Consiglio di un paese come il nostro, cercare di capirlo è impossibile. In un paese in cui la libertà di pensiero è (cerca di essere) ancora un baluardo della democrazia, Berlusconi è libero di contestare i motivi di questa protesta, ma non delegittimarla, riducendola all’incontro di giovani lobotomizzati e ignoranti manovrati da un’opposizione che ha fiutato, questo sì, la convenienza politica delle proteste.
“Spiace solo vedere tanti ragazzi ingannati e presi in giro dalla sinistra”, sono le parole di chi, con finto fare paternalistico, dà dell’imbecille a chi protesta, e rafforzando il concetto ieri: “Vedo una sinistra scandalosa che ha la capacità di rovesciare il vero e dire il contrario della verità”, mentre La Russa dice: “I giovani manifestano per disinformazione”.
 
Veramente il Presidente del Consiglio crede che centinaia di migliaia di ragazzi in piazza, non abbiano letto la legge contro cui protestano? Se un equivoco c’è, è quello di etichettare sia la 133 che la 137 sotto l’égida (e non egìda) di Legge Gelmini, dato che, tecnicamente, la 133 è una legge finanziaria. Ma è veramente possibile che, anche se all’interno di una legge finanziaria, articoli che toccano le università non siano passate al vaglio del Ministro per l’Istruzione? E se così fosse sarebbe anche peggio.
 
Abbiamo capito che lo Stato non può spendere, deve, anzi, trovare risorse sempre maggiori e il taglio delle spese inutili è fondamentale. Questo ha detto Tremonti e questo devono fare gli altri ministri. Un ragionamento del genere è condivisibile, ben vengano tagli mirati e definiti tali, senza giri di parole.
 
Non, quindi, come fatto per la 133, dove, a differenza di quanto dicono i vari esponenti della maggioranza, al comma 6 dell’articolo 64 si afferma che “Fermo restando il disposto di cui all’articolo 2, commi 411 e 412, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, dall’attuazione dei commi 1, 2, 3, e 4 del presente articolo, devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456 milioni di euro per l’anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l’anno 2010, a 2.538 milioni di euro per l’anno 2011 e a 3.188 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012.
 
Perché, allora, invece di tagliare non si parla riallocazione? Fare in modo che i soldi risparmiati, grazie a una gestione più oculata dei finanziamenti alle università, invece che andare allo Stato, saranno ripartiti tra le Università che maggiormente li meritano; e, di conseguenza, creare anche maggiore meritocrazia. Non era questo della meritocrazia uno dei cardini del pensiero berlusconiano?
 
Perché nascondere i tagli dello Stato, ad esempio, dietro la creazione delle Fondazioni Universitarie?

 
Quando si dice di voler trasformare le Università in Fondazioni, non può non venire in mente che il Governo voglia ovviare con i finanziamenti privati ai tagli che verranno dal pubblico.
 
Se ci sono centinaia di migliaia di studenti in piazza a protestare per i tagli, per il tempo prolungato, per la privatizzazione delle Università e per tutti quei motivi che AgoraVox cerca di spiegare da giorni, mentre il Governo sostiene di aver fatto il meglio che poteva, viene da chiedersi se non ci sia un errore di comunicazione di fondo. Beh, allora dovrebbero prendersela con se stessi e, soprattutto, spiegare chiaramente le proprie ragioni, e perché pretendono di fare riforme a costo zero (in tutta la legge 133, una delle allocuzioni che maggiormente si legge è senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica), se non tagliando.

Faccia questo, però, dopo un dialogo serio con le diverse parti. Che senso ha – ci chiediamo - cercare il dialogo, a conti già fatti? Dialogare non è imporre, ma questo sembra che i governi, di qualsiasi colore siano, non l’hanno ancora imparato.
 
Dopo aver accusato il movimento di non avere capito le leggi, comunque, Berlusconi torna all’assalto, e questa volta punta su un altro punto caldo della protesta, quello più prettamente politico.
 
Il Cavaliere continua nel suo associare la protesta alla sinistra, cercando di incorporare il movimento studentesco sotto un colore politico, quando - e l’altroieri ne abbiamo avuto conferma - la protesta monta anche nei settori vicini alla destra. Certo, politicamente è molto comodo etichettare un movimento, rendendolo inviso a chi la pensa come il Governo, estremizzare e radicalizzare le posizioni, cercando di portare il discorso fuori da una logica democratica di legittima protesta.
Ad ogni modo se è vero che le maggiori sigle delle associazioni universitarie in protesta sono orientate a sinistra come mai, anche quelle non poche associazioni di destra protestano? Anche loro così ingenue da farsi condizionare dai comunisti?
 
La protesta, comunque, abbiamo già detto altrove, è forzatamente politica, ma nel senso più ampio che questo termine possa avere, e non nel senso di partitico, senso che ormai tutti prendono per buono.
 
È politico perché riguarda la popolazione, l’interesse pubblico, e tale deve rimanere, nonostante le provocazioni che vengono dall’estrema destra; e se solo la metà delle cose raccontate da Curzio Maltese su La Repubblica di ieri fossero vere, ci sarebbe veramente da preoccupare, e da sospettare che le parole di Cossiga siano state accolte come un consiglio.
 

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