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Se i nativi indossano la divisa dei visi pallidi

di Marco Cinque (*)

La questione spinosa e controversa della partecipazione di soldati indigeni alle guerre dell’imperialismo americano. 

È ormai del tutto noto che le popolazioni native delle Americhe, ma anche del resto del mondo, hanno dovuto sopportare ogni sorta di ingiustizie e soprusi: genocidi, discriminazioni, assimilazioni forzate, sterilizzazioni, torture, spossessamenti e quant’altro. Siamo anche a conoscenza dell’odioso significato del termine Destino Manifesto, coniato dai governi statunitensi per dare un nome assolutorio agli orrori compiuti ai danni delle popolazioni aborigene, di cui conosciamo le tragiche realtà attuali, che le vedono discriminate e confinate in ghetti chiamati “Riserve”.

Oggi le Riserve Indiane sono i luoghi che possono essere considerati il terzo mondo casalingo dell’America, con record assoluti di disoccupazione, povertà, criminalità, suicidi, alcolismo e tossicodipendenza. Come regolarmente accade in tutti i ghetti, gli effetti conseguenti sono nefasti e vedono percentualmente le minoranze native americane al primo posto nella classifica delle incarcerazioni e delle condanne alla pena capitale. A questi primati concorrono comunque anche la discriminazione, il razzismo e persino le leggi razziali ancora in vigore negli Usa, come ad esempio il Major Crime Act, una legge federale che permette di condannare al patibolo i nativi anche in stati dove non c’è la pena di morte.

Un’altra triste evidenza, dopo il genocidio e il furto delle terre, è anche lo spossessamento culturale dei popoli indigeni, dove persino i loro nomi vengono trasformati in oggetti e merce da vendere e comprare: le jeep Cherokee, gli elicotteri Apache, etc.

Premesso ciò, la questione controversa che si vuole qui affrontare è quella delle guerre moderne intraprese dagli invasori wasichu, cioè i visi pallidi; guerre di aggressione a cui tanti veterani indigeni si sono volontariamente prestati, per diversi e variegati motivi che non sono però così nobili e romantici come si vorrebbe far credere.

Prendiamo ad esempio il Vietnam, invaso per questioni geopolitiche, senza che avesse minacciato o attaccato gli Stati Uniti. Cosa si può dire di tutti gli uomini, donne e bambini vietnamiti innocenti sterminati, bruciati col napalm sulla loro terra, proprio come venivano bruciati i nativi americani nei loro villaggi? Eppure, molti “eroi di guerra” sono poi tornati nelle Riserve della loro patria (quale patria?) con le loro medaglie al valore (quale valore?).

"La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America", affermò in un suo discorso il pugile Muhammad Alì, aggiungendo: "E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato “negro”, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera".

Per questa sua coerenza, nonostante fosse ricco e famoso, Alì in galera ci finì davvero.

Diversa è la questione che riguarda i veterani nativi della Seconda Guerra mondiale, che hanno combattuto contro il nazismo di Hitler e che sfilano in grandi parate, come quella dei ventimila di New York, nel 2009, per rivendicare, attraverso la memoria del loro sacrificio, quelli che dovrebbero essere i loro sacrosanti diritti.

Quando si affrontano questioni così complesse bisognerebbe sempre riuscire a leggerle non solo dalla prospettiva che piace o che fa comodo, e in questa ci sono anche delle contraddizioni laceranti che non possono essere ignorate o nascoste. Molti veterani indigeni delle guerre moderne, tra cui spiccano anche nomi noti, sono generalmente restii, imbarazzati e non ne parlano volentieri.

Si capisce che per loro si tratta di una ferita aggiunta ad altre ferite, troppo dolorose e troppo difficili da rimarginare. Molti altri, all’opposto, marciano con orgoglio e con solennità nei pow-wow (raduni intertribali), indossando le loro divise militari, le mimetiche da combattimento e mostrando i loro trofei di guerra.

Pur sostenendo giustamente le istanze e le rivendicazioni dei popoli indigeni, in questo caso non si riesce a comprendere la loro inclinazione guerrafondaia, per giunta attuata in nome e per conto dei loro stessi oppressori. Non è nemmeno credibile la tesi che a spingere molti nativi ad arruolarsi nei conflitti attuali ci sarebbe la loro innata indole guerriera, questo è solo uno dei luoghi comuni giustificazionisti che tentano di dare una nobiltà e un valore che non meritano di essere dati. Dietro l’arruolamento e la partenza per il Vietnam, l‘Afghanistan, l’Iraq ci sono invece, come per tutti gli altri arruolati, questioni legate alla povertà, all’esclusione sociale, alla frustrazione, alla discriminazione, al fanatismo, che poco hanno a che fare con la difesa della patria e il perseguimento della giustizia.

Quindi è rischioso e sbagliato sposare cause generiche, come quella della difesa delle popolazioni aborigene, senza riuscire ad andare oltre lo stereotipo che vedrebbe tutti i nativi americani invariabilmente oppressi ed esclusivamente dalla parte della ragione.

Un mio fratello adottivo Cherokee, il vecchio Ray “Running Bear” Allen, dal braccio della morte di San Quentin, dov’era rinchiuso, percependo il mio imbarazzo e gli immarcescibili sensi di colpa del colonizzatore pentito, in una sua lettera mi scrisse:

"Il sangue che hanno versato i tuoi padri non deve ricadere su di te, tu non sei colpevole di niente. Ma ricorda sempre che ci sono molti indiani col cuore più pallido di tanti visi pallidi, così come ci sono molti visi pallidi col cuore più rosso di tanti indiani."

MARCO CINQUE

Marco Cinque nasce a Roma nel 1957. Scrive, fotografa, suona, recita, pubblica saggi, raccolte poetiche, articoli. Partecipa ad album musicali, festival internazionali di poesia, mostre pittoriche e fotografiche. Attraverso i linguaggi dell’arte veicola tematiche sociali e ambientali, privilegiando nei suoi progetti multimediali le periferie, le carceri e le scuole di ogni ordine e grado. Nel 1992 inizia una corrispondenza epistolare con due nativi americani rinchiusi nel braccio della morte di San Quentin, il cherokee Ray “Running Bear” Allen e lo yaqui Fernando Eros Caro. Diverse volte è stato in visita a San Quentin e ha promosso numerosi progetti, tra cui la campagna nazionale Adotta un condannato: adozioni epistolari di prigionieri detenuti nei bracci della morte statunitensi, a cui hanno aderito molte classi di alunni e studenti in tutta Italia. Realizza numerosi progetti anche in diverse carceri italiane, sia con laboratori di scrittura e musica ma, soprattutto, cercando di dare voce ai senza voce seppelliti nelle prigioni, con la pubblicazione di molti lavori realizzati da detenute e detenuti. Ha pubblicato più di trenta libri ed è stato tradotto in inglese, spagnolo e tedesco. Attualmente lavora presso il manifesto. Le sue più recenti pubblicazioni sono “Muri e mari”, Edizioni Seam 2014 e, con una introduzione di Jack Hirschman, il libro bilingue “At The Top Of My Voice”, pubblicato da Marimbo Press di San Francisco. Nel 2015 è uscita la raccolta antologica contro la guerra, curata assieme a Phil Rushton, “SignorNò”, con prefazione di Margherita Hack, ancora per le edizioni Seam, Roma 2015. Sempre per Seam, stampato nel 2015 “Sintesi”, un libro bilingue, italiano-inglese, di poesie brevi, con una introduzione di Beppe Costa. Nel 2016 pubblica la raccolta “rEsistiAmo”, per le edizioni Pellicano. Nel 2017, sempre per Pellicano, pubblica i volumi di poesia “Parola Nuda” e, con una prefazione di Wasim Dahmash, “Dalla parte del torto”, una corposa selezione antologica che raccoglie i testi di nove diverse raccolte oltre a poesie inedite

(*) ripreso da https://ytali.com/

IN “BOTTEGA” OSPITIAMO SPESSO GLI SCRITTI DI MARCO CINQUE

Questo articolo è stato pubblicato qui

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