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Scienza economica e scienza della cultura

 

“Economia dell’identità” è un saggio snello e agile che delinea le principali linee di studio di una branca dell’economia desiderosa di approfondire i fenomeni della vita reale (Laterza, 2012).

 

Questo libro nasce in modo curioso: nel 1995 Rachel Kranton scrive una lettera a George Akerlof per informarlo che la sua ultima pubblicazione contiene risultati parziali e inesatti (Akerlof vincerà il premio Nobel per l’Economia nel 2001). Così l’economia dell’identità prende in esame i processi decisionali all’interno dei contesti sociali e delle relazioni interpersonali, poiché “Le idee hanno conseguenze” (Milton Friedman) e in troppi casi “Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro” (John Maynard Keynes). L’economia fondata sull’analisi matematica può trascurare gli esseri umani.

I concetti fondamentali di questa prospettiva economica sono tre: le categorie o l’identità, le norme o gli ideali, e l’utilità identitaria o guadagno personale. Questi concetti sono “in grado di spiegare come le motivazioni variano nei diversi contesti sociali”. Una persona può limitarsi a seguire alcune norme sociali, oppure può trarre piacere a fare qualcosa per aderire a un gruppo di riferimento, soprattutto “quando viene marcata la differenza tra un gruppo e l’altro” nell’arena sociale (p. 34). Chiaramente esistono delle esternalità, “quando le azioni di un individuo o di un’organizzazione recano danno o beneficio ad altri” (ad esempio l’inquinamento e l’usura).

L’identità è come il mercato: è la libertà di scegliere qualcosa o qualcuno e di vivere in modo prevedibile e ordinato. In effetti le aziende di successo sono capaci di massimizzare le identità personali e aziendali, e riescono a modulare al meglio gli incentivi monetari e il valore emotivo dell’identità aziendale. “Se gli impiegati si preoccupano solo di massimizzare salari e bonus, manipoleranno il sistema per i loro fini personali. Faranno tutto quello che possono per meritarsi gli incentivi, ma non faranno necessariamente quello che è meglio per l’azienda e per i clienti”.

Naturalmente c’è chi è molto interessato alla gestione delle identità degli altri per ottenere grandi vantaggi personali: “Pubblicitari, politici e datori di lavoro manipolano tutti le categorie sociali e le norme” (p. 22). Tuttavia “i confini imposti dall’appartenenza a razze, etnie e classi sociali possono limitare quello che le persone possono essere” e possono fare. Naturalmente quando gli individui “non sono all’altezza delle norme che loro stessi (e altri) hanno stabilito, sono infelici”.

In genere quasi tutte le aziende più moderne ricercano profili psicologici e lavorativi che rispecchiano quelli aziendali, sia per aumentare la produttività, sia per ridurre “gli incentivi monetari per svolgere bene il proprio lavoro”. In ogni caso “le aziende ottengono quello per cui pagano” e spesso non ottengono quello che vogliono a causa delle retribuzioni non ottimizzate (Robert Gibbons, MIT). Si possono stimolare piccoli e grandi cambiamenti dell’identità delle persone, però “può essere costoso in termini di formazione, bonus d’ingaggio e benefit”.

Quindi è meglio puntare a grandi miglioramenti dell’identità aziendale se esiste un’incertezza economica generale, se è difficile valutare l’attività dei lavoratori, se il lavoratore è troppo avverso al rischio e se i profitti o la produttività dipendono da grandi sforzi relativi a periodi di picco (p. 57).

Comunque l’economia schiavizzata dalla frettolosa burocrazia finanziaria produce poca scienza e poca cultura, poiché la cooperazione (economicamente interessata e disinteressata) è la vera origine del progresso: “spesso attribuiamo all’eccellenza del genio umano, e alla profondità della sua penetrazione, ciò che in realtà è dovuto alla lunghezza del tempo, e all’esperienza di molte generazioni” (Bernard de Mandeville, “Favola delle api. Ovvero, vizi privati e pubbliche virtù”).

Nota personale: troppi economisti, banchieri, burocrati e politici non riescono ancora a capire che l’attuale crisi ha superato ampiamente quella degli anni Trenta: nel 1929 “i debiti in sofferenza ammontavano al 160 per cento del prodotto interno lordo (fino a salire al 260 per cento nel 1932). Nel 2008 si arriverà al 365 per cento del PIL senza tener conto dell’atomica derivati” (Francesco Maggio, Bluff economy, Edizioni Gruppo Abele, 2013). Il peggio deve ancora venire, servono grandi cambiamenti educativi per affrontare le emergenze sociali, e aveva ragione John Stuart Mill quando diceva che “Non sarà probabilmente un buon economista politico, chi non è nient’altro”.

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