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Sarayaku e Dongria Kondh: la lotta dei popoli nativi per il nostro futuro

Continua il racconto delle lotte delle comunità di indigenti contro la corsa impazzita allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Una battaglia che riguarda tutti noi e che se vinta potrà dare qualche speranza al mondo in cui vivranno le future generazioni. La prima parte dell'articolo è qui

In base al diritto internazionale, le imprese sono tenute a rispettare i diritti umani, mentre gli Stati devono garantire la protezione dagli abusi che possono essere compiuti da parte di attori non statali. Il venir meno dei governi e di grandi attori economici privati come le aziende multinazionali alle proprie responsabilità conduce alla violazione di un ampio ventaglio di diritti umani: il diritto alla vita, all’integrità fisica e mentale, a un ambiente sano e quindi alla salute, il diritto a una vita dignitosa (che comprende il diritto al cibo e a un alloggio adeguato), il diritto a guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro, il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona, il diritto alla difesa della cultura delle minoranze etniche, linguistiche e religiose.

Proprio per prevenire tali violazioni, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2007, afferma il diritto delle popolazioni native alle terre, ai territori e alle risorse che occupano o posseggono per tradizione, nonché il diritto alla conservazione e protezione dell’ambiente, stabilendo che è compito dello Stato garantire il riconoscimento e la tutela legale di tali diritti.

Nella Dichiarazione viene sancito anche il diritto dei popoli nativi a non essere spostati con la forza dalle proprie terre o territori e alla restituzione ovvero, quando questa non sia più possibile, a un equo risarcimento per le terre e le risorse che siano state loro confiscate, prese, occupate oppure compromesse. Si afferma inoltre che gli Stati devono consultarsi e cooperare in buona fede con i popoli nativi tramite le loro istituzioni rappresentative, in modo da ottenere il loro consenso libero, preventivo e informato riguardo all’approvazione di qualsiasi progetto che influisca sulle loro terre, sui loro territori o sulle loro risorse, in modo particolare per quanto concerne la valorizzazione, l’uso o lo sfruttamento delle risorse minerarie, idriche o di altro tipo.

Altre disposizioni riconoscono il diritto dei popoli nativi a partecipare attivamente all’elaborazione e alla definizione dei programmi relativi alla salute, all’alloggio e ad altre questioni economiche e sociali che li riguardino, al mantenimento delle proprie istituzioni politiche, giuridiche, economiche, sociali e culturali, a non essere sottoposti all’assimilazione forzata o alla distruzione della loro cultura e a manifestare, praticare, promuovere e insegnare le loro tradizioni spirituali e religiose.

Purtroppo la Dichiarazione, pur rappresentando un’importante manifestazione d’intenti da parte dei Paesi che partecipano alle Nazioni Unite, non ha valore giuridico vincolante. Tuttavia, le violazioni di cui i popoli nativi sono spesso vittime riguardano diritti umani già sanciti da una lunga serie di trattati internazionali (strumenti per loro natura vincolanti nei confronti degli Stati sottoscrittori), a valenza sia globale (come il Patto sui Diritti Civili e Politici e il Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966) che regionale, come la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli e la Convenzione Interamericana dei Diritti dell’Uomo.

È proprio a tali fonti di diritto internazionale che hanno fatto appello i Sarayaku, nel momento in cui hanno deciso di adire a un tribunale internazionale per i diritti umani. Dopo mesi di resistenza pacifica, infatti, la comunità amazzonica è riuscita a costringere la CGC a sospendere le proprie attività e ad abbandonare il loro territorio. La compagnia petrolifera ha tuttavia lasciato dietro di sé ampie porzioni di foresta pluviale devastate e tonnellate di esplosivo sepolto nel terreno. La consapevolezza del fatto che né loro né gli altri popoli nativi dell’Ecuador sarebbero mai stati al sicuro se a quell’esperienza traumatica non fosse seguita una ufficiale condanna nei confronti del loro governo ha spinto i Sarayaku (che si definiscono “discendenti del giaguaro”) ad adire alle istituzioni giudiziarie. Dopo anni di inutili tentativi al riguardo presso i tribunali nazionali, la comunità ha deciso di rivolgersi alla Corte Interamericana per i Diritti Umani. Il caso di questo piccolo ma determinato popolo è stato seguito anche da Amnesty International, che, insieme alla comunità stessa, ha prodotto un documentario che sta facendo il giro del mondo, ottenendo numerosi riconoscimenti.

Nel luglio del 2012 la Corte ha stabilito che l’Ecuador ha violato quattro diritti dei Sarayaku: il diritto a una effettiva e adeguata consultazione; il diritto alla proprietà comune dei terreni; il diritto all’identità culturale; il diritto alla protezione della propria vita e della propria integrità fisica da parte dello Stato. La Corte ha inoltre condannato lo Stato ecuadoriano a provvedere alla rimozione delle cariche esplosive e alla corresponsione di risarcimenti per i danni subiti.

Questa decisione, che giunge al termine di un decennio di battaglie legali, è un messaggio forte per i governi e le comunità native di tutto il continente americano, in quanto ribadisce che gli Stati sono tenuti a condurre adeguati processi di consultazione delle popolazioni native prima di avviare progetti che possano impattare negativamente sull’esistenza delle medesime. Stabilisce inoltre nel dettaglio in che modo tale consultazione debba avvenire: in buona fede e attraverso procedure culturalmente appropriate, volte alla ricerca del consenso, che devono consentire un adeguato accesso alle informazioni da parte delle popolazioni interessate, fatto che richiede, per esempio, la messa a disposizione di informazioni nella lingua da loro parlata. La consultazione non può pertanto consistere – come spesso avviene – nel semplice fatto di portare a conoscenza delle popolazioni interessate da un progetto decisioni che sono già state assunte dal governo.

Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, anche i Dongria Kondh hanno deciso di intraprendere le vie legali per cercare di ottenere il rispetto dei propri diritti. Nel 2010, per effetto delle pressioni internazionali sul caso (al quale si sono interessate diverse associazioni per la difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International), il Ministero dello Sviluppo e delle Foreste ha ritirato l’autorizzazione precedentemente rilasciata per l’ampliamento della raffineria e per la realizzazione della miniera di bauxite. Dopo una serrata battaglia legale tra la comunità e l’azienda, lo scorso 18 aprile 2013, la Corte Suprema Indiana ha decretato che gli adivasi hanno il diritto di assumere la decisione finale relativamente alla realizzazione della miniera di bauxite sulle colline di Niyamgiri.

I Sarayaku e i Dongria Kondh stanno ora aspettando che le storiche sentenze con le quali vengono riconosciuti i loro diritti trovino adeguata applicazione dai parte dei loro rispettivi governi. Proprio come nel film Avatar, di James Cameron, nel quale è possibile assistere alla trasfigurazione fantascientifica delle vicende di tanti popoli del nostro pianeta che ogni giorno lottano contro grandi poteri politici ed economici per la propria sopravvivenza, le loro storie sembrano destinate a concludersi con un lieto fine. Ma troppe storie simili si stanno ripetendo, oggi come secoli fa, spesso nel più assoluto silenzio mediatico, e si concludono in maniera ben diversa.

Per questo Eriberto Gualinga ha affrontato un viaggio tanto lungo, per testimoniare che il suo popolo continuerà a battersi affinché simili violazioni non si ripetano nel suo Paese, né nei confronti della sua comunità, né nei confronti di altre popolazioni della foresta. “Ma è una battaglia che riguarda anche voi” dice.

Improvvisamente nella sala si percepisce un silenzio pensoso. Mi chiedo quanti di noi, prima di allora, avessero riflettuto su questa semplice verità. L’impegno che migliaia di attivisti, in tutto il mondo, stanno profondendo affinché le ingiustizie e gli abusi subiti da popolazioni che abitano remoti angoli del pianeta acquisiscano la dovuta visibilità a livello internazionale non è soltanto dettato da un senso di giustizia e di solidarietà.

È un impegno senza il quale il nostro stesso futuro sarebbe ancora più in pericolo di quanto già non sia, perché i popoli nativi sono i custodi degli ultimi angoli incontaminati del nostro pianeta e dal successo della loro lotta per la sopravvivenza dipende anche la possibilità e la qualità della vita di tutte le società umane del mondo.

Dall’Amazzonia all’Africa subsahariana, dalla taiga canadese alla fascia tribale indiana e all’arcipelago indonesiano, milioni di persone vivono da secoli in equilibrio con la natura, utilizzandone le risorse in maniera sostenibile. Se questi popoli saranno in grado di fermare la corsa impazzita allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, garantendo che la valorizzazione di tali risorse avvenga in modo rispettoso dell’ambiente e dei diritti di coloro la cui vita dipende strettamente dal medesimo, forse ci sarà ancora qualche speranza per il mondo in cui vivranno le future generazioni.

Riccardo Facchini

Fonte: www.sagarana.net

 

Foto: Lubasi/Flickrhttp://www.flickr.com/photos/lubasi/6127720949/

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