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Home page > Gli Incontri dell’Agorà > Anno Europeo dei Cittadini > Riserva naturale di biocombustibili (2/2)

Riserva naturale di biocombustibili (2/2)

La prima parte è qui

 

L'impresa si approvvigiona al lago di Guiers, il più grande del paese ed una delle fonti principali di acqua dolce del Senegal, situato nella parte superiore della regione del delta del fiume Senegal.

Una storia che si ripete, poiché l'utilizzo di tale fonte a scopi agricoli, aveva già provocato l'esaurimento quasi totale dei corsi d'acqua che attraversano la riserva, tanto che nel 1990 questa verrà aggiunta anche al registro di Montreux che annovera le “zone umida di rilevanza internazionale le cui caratteristiche ecologiche sono state modificate in seguito all'azione umana”.

Tra i principali utilizzatori del lago vi è la Compagnie Sucrière Sénégalaise, società appartenente al gruppo Mimran, e controllata per i tre figli del fondatore, tra cui Jean-Claude Mimran: il miliardario francese esiliato fiscale e residente in Svizzera. La compagnia è stata sua volta presa di mira dalle popolazioni locali che denunciano l'utilizzo improprio del lago opponendosi al contempo alle sue pretese di aumentare l'estensione dell'aera coltivata.

Passando per le zone attribuite a Senhuil-Sénehetanol arriviamo nel villaggio di Diourky 1: “Siamo in gabbia” dichiarano gli abitanti, “il progetto ci circonda interamente e non ci lascia alcun passaggio per pascolare gli animali”. Effettivamente non c'è traccia di mucche nei paraggi. Gli allevatori sono stati costretti a separarsi dal bestiame, ospitato in villaggi più lontani: l'arrivo del progetto ha eliminato ogni possibilità di movimento e pertanto di pascolo. “Non c'è più spazio per noi, 6.000 ettari senza possibilità di muoversi non sono una soluzione. L'unica soluzione è andarcene, ma dove?” dichiara Daara Sow, capovillaggio, che aggiunge “anche se ce ne andassimo non possiamo spostare i nostri morti: l'impresa sta coltivando su quello che è il cimitero della comunità”.

Le testimonianze che ascoltiamo nei villaggi di Ndiaël ci raccontano una storia già nota. I grandi capitali riescono ad ottenere l'accesso alla terra, ad una terra sempre più spogliata dai suoi diritti di proprietà collettiva e tradizionale e, allo stesso tempo, sempre più integrata nelle dinamiche di libero mercato, una terra che è la base della sussistenza dei suoi abitanti che perdendola perdono i propri mezzi di produzione. In cambio le imprese promettono scuole, ospedali e borse di studio, come favore accordato nell'ambito della propria politica di responsabilità sociale. “Promettono, ma non rispettano la parola data” affermano gli abitanti. Ma anche nel caso mantenessero tali promesse “perché dovremmo cedere al ricatto di chi prende le nostre terre e avvelena la nostra acqua in cambio di servizi che dovrebbero già essere garantiti dallo Stato?”. “Io non ho intenzione di divenire un bracciante salariato al servizio di queste persone, ho già la mia attività di allevatore, se me la lasciassero esercitare!” spiega M. Amadou KA, responsabile e membro del “collettivo dei 37 villaggi”, “gli investimenti sono i benvenuti, ma se aiutano le persone, non se sono contro di loro”.

Il passato 9 agosto nel corso di una riunione la collettività dei 37 villaggi aveva proposto come mediazione di limitarsi a coltivare 10.000 ettari, ottenendo il consenso dei rappresentanti locali dell'impresa presenti. Quando però gli abitanti hanno visto che i lavori persistevano al di fuori della zona concordata, hanno indetto una nuova riunione e, il 16 settembre, hanno dichiarato rotto ogni rapporto di fiducia con Senhuile-Senéthanol.

La ragione per cui una compagnia investe cosi tanta energia e denaro in un progetto apparentemente ad alto rischio di rigetto, come testimonia la sua precedente delocalizzazione da Fanaye, può essere giustificato su una prospettiva di alti guadagni in breve tempo. Allo stesso tempo, dobbiamo sottolineare il ruolo attivo intrapreso dallo stato nel proteggere tali investimenti dal malcontento della popolazione. Nonostante i tentativi di dialogo e le proteste, anche qui, come a Fanaye e come per molti altri casi dove grossi investimenti stranieri impongono progetti che minacciano la sopravvivenza delle comunità locali, la risposta alle richieste degli abitanti è lo stato d'eccezione e la militarizzazione. L'arrivo dell'esercito contribuisce all'aumento della violenza inasprendo lo scontro tra cittadini e governo. Gli scontri con la polizia sono frequenti ed hanno già provocato diversi feriti, tanto tra gli abitanti che tra le forze dell'ordine. I 7 figli di Adama Ba, villaggio di Guiladou, erano appena tornati da una festa di matrimonio, quando la polizia di Ross-Bethio ha fatto irruzione in casa arrestandoli tutti, senza prove, ma accusati di essere gli autori di un incendio doloso provocato ai macchinari dell'azienda. “Nessuno dei miei figli ha mai avuto problemi con la giustizia prima”, mi dice Adama, preoccupata.

Questo tipo di interessi non sembra essere destinato a scomparire e l'attrazione del capitale per il potenziale agricolo africano non accenna a diminuire.

Negli anni 70 l'industria agro-alimentare aveva iniziato a ritirarsi dalla produzione diretta per concentrarsi su attività più a valle nella catena del valore come la trasformazione e la distribuzione dei prodotti, dove i margini di profitto erano maggiori. Ciò a ragione del fatto che la produzione primaria era considerata economicamente meno attrattiva e più esposta ai rischi per ragioni tecniche (legate all'insicurezza dei rendimenti terrieri: intemperie; parassiti etc) e politiche.

Attualmente la tendenza al rialzo dei prodotti di base ha accentuato i rischi per fornitori e approvvigionatori, contemporaneamente la possibilità di una produzione agricola destinata al mercato dell'energia ha attirato l'attenzione di molte società internazionali. La percezione che il valore della terra e dell'acqua che vi è racchiusa sia in aumento ha contribuito anche all'emergere dei terreni agricoli come bene in un portafoglio di investimenti. Il settore finanziario è un attore relativamente nuovo nel campo della produzione primaria, ma i grandi capitali, destabilizzati dalla crisi finanziaria che ha reso meno convenienti alcuni settori classici di investimento, sono in cerca di nuovi asset su cui posizionarsi, hanno cosi iniziato a guardare alla produzione agricola come ad una effettiva possibilità di diversificazione. Di conseguenza, non solo i produttori agricoli, ma anche ​​fondi di investimento, banche, fondi pensione, hedge fund e private equity si sono avventurati nel settore, puntando, tra le altre cose, a mutare le piccole agricolture a conduzione familiare in progetti agroindustriali a larga scala o a convertire ex novo terreni non in produzione in regioni agricole.

La banca mondiale aveva quindi ragione? Sembra che non ci sia niente di più fertile del deserto se l'innaffiamo con un bel po' di denaro. Ma anche ammettendo l'effettiva possibilità di un aumento della produttività agricola africana, a chi deve essere lasciato il suo sviluppo e la sua gestione? Chi debbono essere i beneficiari?

"Imporci questo tipo di investimenti in nome di una pretesa di sviluppo equivale insultarci!" tuona Mariam Sow, "Siamo in Africa, ma ciò non significa che siamo tagliati fuori dal mondo: abbiamo internet, delle università, e conosciamo gli effetti deleteri delle monocolture e di progetti agricoli di questi tipo, conosciamo l'esperienza similare di altri paesi come quelli dell'America Latina”. E conclude “Siamo in grado d'interpretare i risultati dello sviluppo occidentale e per non voler ripeterne gli stessi errori”.

Se le soluzioni non sembrano così evidenti, le cause sono altrettanto poco oggettive. Picco del petrolio e aumento della popolazione sono indicati come le principali ragioni dello stress sulle risorse rese scarse e dunque appetibili. Proprio come l'espressione “crisi energetica” designante un' "emergenza" che dura da più di 70 anni, anche attraverso il concetto di scarsità troviamo all'opera un particolare slittamento semantico che riduce una situazione complessa ad un dato di fatto, un evento decontestualizzato, senza storia né intenzioni (né colpevoli!). La nozione di scarsità non è unidimensionale, essa presenta diversi livelli di complessità che invocano una decostruzione. Da un lato la scarsità non si definisce in maniera indipendente, ma esiste in relazione a desideri specifici, dall'altro lato essa assume aspetti differenti tanto fisici, quanto politici ed economici. A seconda che si privilegi l'una o l'altra di queste dimensioni, che si assuma l'una o l'altra come principale responsabile della crisi delle risorse, l' ”emergenza scarsità” dovrà essere risolta rispettivamente per mezzo del progresso scientifico, delle leggi e dell'orientamento politico o affidandosi all'azione del mercato. Ne consegue che, interpretare la crisi delle risorse come un evento naturale ed in nessun caso come il frutto di anomalie di mercato o come il risultato di un modello perverso di consumo, significa invocare il progresso della scienza come via d'uscita dall'impasse, piuttosto che pretendere una maggior protezione contro le speculazioni o chiedere ai governi un intervento attivo in funzione della redistribuzione.

Di Maura Benegiamo

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