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Riflettendo su tre anniversari storici: Liberazione, Unità d’Italia e Prima Guerra Mondiale

Questo anno sono caduti insieme due anniversari: il 70° della Liberazione e della fine della II Gm e il centenario dell’entrata dell’Italia nella I Gm. Quattro anni fa, cadde il centocinquantesimo anniversario dell’Unità italiana. Questi tre anniversari così vicini nel tempo mi suggeriscono alcune riflessioni più generali sulla funzione della storia nel nostro tempo.

Spesso si capisce meglio un quadro, soprattutto se molto grande, allontanandosi, per vederlo nell’insieme.

E vorrei partire da un confronto dettato dall’esperienza personale di vita: haimè, sono abbastanza vecchio ormai da ricordare gli analoghi anniversari di mezzo secolo fa.

Nel 1959, con il centenario della seconda Guerra di Indipendenza, iniziò un ciclo di ricorrenze che sarebbe proseguito con il centenario dell’impresa dei Mille (1960), con quello dell’Unità nazionale (1961), con il ventesimo della caduta del fascismo (1963), il cinquantenario della I Gm (1964-5), il ventesimo della Liberazione (1965), il centenario della terza guerra di Indipendenza (1966), il cinquantesimo della Rivoluzione Russa (1967), il cinquantesimo della fine della I Gm, il centenario di Roma Capitale (1970) ed il cinquantesimo dell’occupazione delle fabbriche (1970) e della marcia su Roma (1972). Quasi un quindicennio di ricorrenze che segnò la formazione culturale di gran parte di una generazione.

Nacquero riviste a larga diffusione come “Storia Illustrata” o “Historia”, le edicole si riempirono di pubblicazioni a dispense (storie della I e della II Guerra mondiale, del Fascismo, della Resistenza, della Rivoluzione Russa..), la scuola fu un amplificatore formidabile, comparvero film d’autore (come “Il Gattopardo” di Visconti, “Viva l’Italia” di Rossellini, “Bronte” di Florestano Vancini, “Mussolini ultimo atto” di Lizzani) ed inchieste televisive (ad esempio “Nascita di una dittatura” di Sergio Zavoli) che valevano ben più di una lezione di storia, ma anche originali televisivi a carattere storico (“Ottocento” “I Giacobini”…).

La mia generazione apprese il senso della storia (noi giocavamo con i soldatini, non con i Manga…) da quel clima e da quelle trasmissioni, film, riviste che ci fecero capire che la storia è quella che fanno gli uomini e che lo strumento che la forgia è la politica. Ma capimmo anche che la storia è una cosa maledettamente complicata, non ammette semplificazioni arbitrarie, non è mai politicamente corretta e solo raramente ha il lieto fine. Non una materia ma una scuola di vita che si estendeva fuori della scuola.

Passiamo all’oggi. Del centocinquantenario quel che si può dire è che è stata un’occasione mancata. Non sono mancati libri di una certa importanza (ad esempio il “Cavour” di Viarengo, il “1848” di Rapport, “Il Risorgimento” di Riall, “La nazione del Risorgimento” di Banti), ma il loro eco non è andato molto al di là dell’ambito strettamente accademico e non hanno avuto il successo culturale che avrebbero meritato. Non sono mancati film discreti come “Noi credevamo” di Martone, ma sono andati persi nella marea di film che escono ogni mese e non hanno segnato alcun momento memorabile. Le trasmissioni televisive sono state noiose quasi quanto le celebrazioni ufficiali invase dall’os rotundum napolitaniano. Non credo che, almeno quell’anniversario, abbia lasciato traccia memorabile nella mente delle giovani generazioni di oggi. E la ragione c’è: come celebrare qualcosa che non si sa cosa sia e cosa stia diventando?

Mezzo secolo fa l’anniversario dell’Unità nazionale aveva un senso perché aveva senso l’idea di Nazione, come soggetto collettivo primario. Ma oggi di che si parla? L’identità nazionale italiana, avvilita dagli insuccessi della sua storia, dal mancato raggiungimento dei traguardi sognati, dal persistere endemico delle patologie nazionali, tende a nascondersi in quella europea. Ma, a sua volta, l’identità europea, cosa è? Soprattutto: esiste? Può una sommatoria di lingue, culture, storie diversissime fondersi in un’identità collettiva che sostituisca le precedenti? E, più ancora: come si fa a costruire un’identità nazionale nel tempo che nega valore all’idea stessa di Nazione? In questa fuga di specchi, che dissolve l’identità culturale del soggetto, si perde anche il senso della storia, o quantomeno sfuma il senso delle origini.

Diversa e più complessa è la vicenda del doppio anniversario di quest’anno. Credo sia sensazione comune la grande freddezza verso il 70° della Liberazione. Quella pagina di storia non ha più nulla da dire all’uomo di oggi. Certo, in questa generale disattenzione, pesano molte cose: l’abuso di celebrativismo fatto negli anni passati, la scarsa credibilità dei celebranti del Pd e la loro spudorata strumentalità, l’eccesso di produzione libraria degli ultimi venti anni, per cui non c’è quasi più possibilità di dire qualcosa di nuovo in merito, la stucchevole polemica negazionista. Ma, probabilmente, la ragione principale è un’altra: la storia non è mai esercizio gratuito ed ha una funzione solo se risponde alle domande del presente e questo presente non ha nulla da chiedere a quel momento di storia.

E’ sintomatico, invece, che ci sia di gran lunga più attenzione verso l’altro anniversario, quello della I Gm. Ovviamente nelle forme proprie di un anniversario lontano nel tempo, non partecipato politicamente, ma pur sempre una pagina di storia cui chiedere qualcosa per capire il presente. La seconda guerra mondiale parla di un ordine mondiale a tre poli (Russia, regimi fascisti, democrazie liberali) che e assume forma bipolare (russi e democrazie contro i fascismi prima e poi, dopo la definitiva sconfitta di questi, campo socialista contro democrazie occidentali). E, alla fine, un durevole ordine mondiale bipolare. Nell’intervallo fra le due guerre mondiali, ci fu un ordine non stabilizzato, ma il quadro tripolare era tutto europeo e molto meno complesso. Nel mondo del dopo guerra, l’ordine mondiale, per certi versi inclinava a diventare più complesso –per la graduale emersione del Terzo mondo, Cina in testa, e per la maggiore interdipendenza mondiale- ma era più stabilizzato: c’era un equilibrio dei rapporti di forza riconosciuto reciprocamente, e, se questo non escludeva limitate oscillazioni, la potenza sfidante riconosceva i limiti entro cui contenere la sua sfida, e la potenza prevalente riconosceva lo spazio politico e territoriale dell’altro. Il tutto nel quadro di una “lunghissima tregua”. Quanto agli attori minori, nessuno aveva autonomia strategica tale da mutare da solo il quadro complessivo e reggere l’urto anche con uno solo dei due imperi.

Uno scenario molto lontano dal presente che si presenta come un multipolarismo non stabilizzato, che ha più similitudini con il mondo alle soglie di Sarajevo. L’Europa della bella époque vedeva due potenze prevalenti ambiguamente alleate-concorrenti (l’Inghilterra e la Francia) ed una sfidante (la Germania), una gara non risolta nel quadro di un policentrismo instabile segnato da alleanze mutevoli. L’ “assalto al potere mondiale” della Germania non trovava un punto di mediazione con la prevalenza dell’Inghilterra e della Francia e lo scontro non conosceva la possibilità di una “lunga tregua” per cui lo scontro era pressoché inevitabile. D’altro canto, Italia, Austria, Russia ed Impero Ottomano erano soggetti dotati di una propria autonomia strategica suscettibile di innescare un conflitto generalizzato.

Ed è proprio questa somiglianza nel “disordine mondiale” (inteso come “mancanza di un ordine accettato da tutti”, sia pur tacitamente o momentaneamente) ad attrarre l’attenzione degli uomini del 2015 che si chiedono quali siano le dinamiche che portano ad un conflitto generalizzato.

E c’è anche un altro aspetto che rende più simile il quadro di oggi a quello che portò alla I Gm. La seconda guerra mondiale venne presentata, sin dal suo sorgere (ed in buona parte lo fu effettivamente) come conflitto ideologico, che opponeva fascismo, comunismo e democrazia liberale. Fu conflitto di fedi politiche. La I Gm non ebbe alcun carattere ideologico: anche se la monarchia costituzionali inglese non aveva nulla a che fare con il califfato di Istanbul o la democrazia repubblicana francese fosse diversa dalla monarchia guglielmina e dall’autocrazia zarista, non era affatto per queste ragioni che i paesi scendevano in guerra. Lo scontro era motivato da espliciti calcoli di potenza: la conquista di nuovi mercati, il controllo delle rotte, il predominio continentale, le conquiste territoriali e tutto avveniva alla luce delle prime teorie geopolitiche. Nella situazione attuale si sono conflitti di fedi religiose (fondamentalismo islamico vs Occidente, Cina/Tibet ecc) ma è scomparsa la dimensione del conflitto politico-ideologico: il tema dell’esportazione della democrazia si è ben presto rivelato come il fragile pretesto della politica di potenza degli Usa. Peraltro, assistiamo al grande ritorno della geopolitica ed i conflitti si sviluppano sul piano degli interessi commerciali, monetari, marittimi, energetici ecc.

In un mondo caotico e tendenzialmente accentrato, come quello presente, cambiamo le domande del presente alla storia e l’andamento degli anniversari è un indice esplicito di questa situazione.

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