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Riduzione della sperequazione dei redditi: perché è quasi impossibile che avvenga davvero

Lo squilibrio nasce all'interno delle aziende, ma è sempre più difficile togliere ai ricchi dirigenti per aumentare gli stipendi degli operativi.

Stabilito che il sistema economico in cui viviamo, semplificando, ha il fine ultimo di distribuire ricchezza e benessere per la comunità di individui che contribuiscono a vario titolo a crearli (attraverso la produzione e l’offerta di beni e servizi che saranno acquistati dal mercato), il grosso limite mai seriamente affrontato di tale sistema è rappresentato proprio dallo squilibrio esistente nella ripartizione del reddito prodotto all’interno delle organizzazioni che chiamiamo aziende. Paradossalmente tali scompensi si accentuano proprio nei momenti di crisi: in genere circola meno denaro, ma quello che c’è sembra andare quasi tutto in una direzione, sempre verso l’alto, mai verso il basso.

L’approccio di solito adottato dai governi è di agire a posteriori, cioè arginare o rettificare in parte il fenomeno attraverso la tassazione, colpendo in maniera più consistente i redditi elevati e utilizzando i maggiori proventi investendo in servizi a beneficio della più vasta collettività. Ma come si è visto, anche applicando tale meccanismo alla perfezione e con la massima scrupolosità da parte degli amministratori pubblici - cosa che certamente non avviene in paesi come l’Italia -  i risultati ottenuti, talvolta anche nei paesi virtuosi, sono lontani dall’essere soddisfacenti. Ovvero i presunti benefici a favore delle classi con minor reddito e il generale miglioramento della qualità della vita dell’intera società ultimamente, almeno qui in Italia, non sono facilmente verificabili e in molti casi nemmeno pervenuti.

Con il persistere della crisi economica in tutta la zona Euro e la recessione in Italia, il tema della grande disparità fra i compensi percepiti dai dirigenti (pubblici e privati) e quelli ricevuti dai dipendenti (impiegati e operativi) è sempre più dibattuto. I media esteri (The Economist, Bloomberg Businessweek, Aljazeera America) e anche alcuni journals di management come Interfaces pubblicano ricerche in proposito e cercano di analizzare il fenomeno in profondità, a riprova che trattasi di argomento sensibile non solo in Italia, dove peraltro il tema è trattato dai media con una certa superficialità, limitandosi a riferire dell’appello del Papa nella Giornata Mondiale della Pace o articoli di stampa estera, senza mai approfondire davvero l’argomento.

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Pay gap by industry sector
Pubblicato da Bloomberg Businessweek

Fatta eccezione per i pochi che predicano una consapevole e cosciente auto riduzione dei nostri bisogni e delle nostre pretese, in una parola del nostro standard of living per tornare ad uno stile di vita più sobrio e che implichi meno consumi, quasi tutti sono d’accordo nel sostenere che l’economia riprenderà a crescere se tutti riprendiamo a spendere di più; banalmente, bisognerebbe innanzitutto che lavorassimo tutti e che guadagnassimo tutti di più. Questo era probabilmente anche il senso del famoso regalino elettorale di 80 euro (che poi rapportati all’anno, in busta paga sono diventati 53 virgola 3 periodico al mese, cioè circa 2 euro al giorno); Matteo Renzi ci ha offerto sì e no la colazione, e per gratitudine l’abbiamo premiato con il 40% alle Europee (ci teniamo a cappuccino e cornetto noi, grazie). Ma il suo intento, non riuscito, era evidentemente di rilanciare l’economia con 2 euro a persona al giorno.

Ma ci potrà mai essere un governo o anche solo un’azienda che dica: da oggi impiegati e operativi guadagneranno 300 euro in più al mese, riducendo i mega stipendi di manager e CEO? Molto improbabile, per non dire che tutti coloro che coltivano in segreto questo sogno si rassegnino a non vederlo mai realizzato. Non nel nostro sistema economico, per giunta in crisi. Il discorso è molto lungo.

Una prova lampante è stata data dalla recente e vivace polemica innescata a fine luglio dalle dichiarazioni di Jens Weidmann, governatore della Bundesbank, il quale a sorpresa - soprattutto per un paladino del rigore e dell’austerità come lui - ha suggerito che gli stipendi dei dipendenti tedeschi possono essere incrementati del 3% (cioè oltre il limite dell’inflazione al 2%). Stiamo parlando, per uno stipendio di 1.500 euro, di un aumento di neanche 50 euro al mese. L’uscita è stata criticata sia dal Financial Times, sia dall’80% dei CEO a capo delle maggiori imprese tedesche. Proprio coloro ai quali la Signora Merkel vorrebbe ridurre gli esorbitanti stipendi. Perché?

Aumentare gli stipendi di tutti coloro che concorrono materialmente alla creazione della ricchezza non si può o non si deve, per il semplice motivo che così facendo i prodotti di un’azienda costerebbero di più e in questo momento nessuno in Europa se lo può permettere, nemmeno la Germania. E se non può permetterselo la Germania con la sua solida economia, figuriamoci noi. Se intuitivamente verrebbe da pensare che in media con più soldi nelle tasche dei cittadini-produttori-consumatori i consumi interni aumenterebbero, allo stesso tempo i nostri prodotti non reggerebbero la concorrenza di prezzo (come già succede) con quelli fabbricati in Cina o in Bangladesh. Quindi le esportazioni andrebbero (e vanno) giù.

Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, il Brasile o anche il Giappone hanno mercati interni enormi rispetto a quelli delle singole nazioni europee e l’inflazione da loro non è considerata una bestia nera da combattere a tutti i costi come avviene in Europa. Certo anche loro devono tenere bassi i prezzi dei loro prodotti se vogliono stare sul mercato globale (parliamo ovviamente di beni di largo consumo), ma avendo piena sovranità monetaria, le loro rispettive banche nazionali possono decidere di immettere liquidità nel mercato, svalutando le loro monete e avendo come effetto una relativa riduzione del prezzo dei beni e servizi all’esportazione. Sappiamo bene che la BCE non può farlo.

La più importante motivazione di fondo per cui si è creata l’Unione Europea è proprio questa: costruire un mercato interno di centinaia di milioni di individui, che possa essere almeno alla pari con quello di Stati Uniti, Russia e Giappone (alla Cina o all’India non ci arriveremo mai). In Europa invece, nonostante l’UE, si ragiona ancora per singoli mercati nazionali, tedesco, francese, italiano. Stipendi e costi di produzione sono diversi nei rispettivi paesi e il made in EU è ancora scarsamente diffuso. Per cui tenere basso il costo del lavoro è l’unica arma che le imprese adoperano per poter cercare di restare a galla. Guardando all’Italia la situazione è anche peggiore: non riusciamo a vendere i nostri prodotti nei grandi mercati asiatici perché costano troppo per cinesi e indiani. Vendiamo ai ricchi Russi, ma solo perché vengono loro in massa a comprare qui da noi. Insomma riusciamo a vendere solo a quelli più ricchi di noi e solo alcuni prodotti; non è sufficiente. E il mercato interno è numericamente più ristretto di quello tedesco.

La soluzione sarebbe importare forza lavoro extracomunitaria con stipendi di entrata inferiori rispetto alla media italiana, o delocalizzare cercando di produrre a basso costo/bassa qualità per aspirare ad una quota di mercato “globale”. Ci sarebbe anche un’alternativa, ma ancora più difficile da attuare: dimenticare la grande industria (tanto prima o poi la perderemo del tutto) e concentrarsi su prodotti di nicchia e ad alto valore aggiunto, per i mercati ricchi. Tornare insomma a fare gli artigiani, come facevamo molto bene un tempo. Ci sono però potenti resistenze a ognuna di queste strade, perché intraprenderle significherebbe cambiare tutto: lavoro, modello di impresa, stile di vita, cultura.

Morale della favola, continuando così gli stipendi dei dirigenti potranno aumentare e anche di molto, perché non hanno reale impatto sull’inflazione e sui costi di produzione. I nostri salari di dipendenti stipendiati? Non se ne parla e non se ne parlerà, se non come pura chimera. Teniamoci i 2 euro al giorno, che di più non arriverà.

 

Foto: Satira Italiana, Flickr

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