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Ricordando Borsellino: perché lo Stato e la Mafia non "trattarono" dopo Via D’Amelio

Da qualche tempo a questa parte la stampa italiana e il connesso mondo dell’editoria sono abituati a disquisire, con maggiore o minore cognizione di causa, e per partito preso, di ogni argomento che possa solleticare la fantasia di ciascuno. L’abitudine a buttarsi a capofitto sui temi più cari all’opinione pubblica, ma anche più sottili per orientarla, è un vecchio vizio italiano. 

E’ fuori discussione che la stampa svolga un lavoro delicato nella nascita delle opinioni individuali e collettive. Un esempio per tutti sono le scuole di sondaggio. A parte il granitico e imperturbabile Moloch montiano, pare siano i sondaggi a determinare il da farsi in Italia. Ad esempio, il caso di Berlusconi che torna a candidarsi ai posti di comando della vita politica nazionale. Una notizia agghiacciante? Non è questo che conta, ma sapere perché il cavaliere formula simile proposta adesso. Nel pieno di una discussione pubblica su un argomento spinoso della nostra storia che riguarda anche la coincidente nascita, nel 1993, di Forza Italia. Il partito del vecchio presidente e di quel galantuomo che è Marcello dell’Utri. Una coincidenza veramente singolare visto che già da un anno la mafia aveva cominciato a trattare con lo Stato, a suon di stragi e dettagliati papelli di discussione.

Questo vizio italiano è analogo a quell’altro che può avere chi chiede a una categoria di ammalati con che cosa vogliono essere curati e sceglie la cura indicata dalle maggioranze. O da coloro che le rappresentano.

Il rapporto Stato-mafia, è un tema ineludibile. Ha, però, un suo peccato originale. E’ fuori da ogni logica, infatti, farlo coincidere con le stragi di Capaci e di via D’Amelio ed è altrettanto privo di senso immaginare queste due entità, lo Stato e Cosa Nostra, come due soggetti estranei che tentano, da mondi diversi e opposti, di raggiungere accordi su determinate materie.

Questo peccato originale ha causato un errore di periodizzazione storica. Non si sa se in buona fede o in mala fede. A meno che non abbia fatto parte, esso stesso, di una precisa strategia di alleggerimento utile a una certa complicità ideologica e di potere. Come se, stando in un pallone aerostatico, per farlo salire, si fosse stati costretti a buttar già zavorra. Ma nel pallone ci sono i convenuti, i quali hanno sempre l’urgenza di chiudere reciprocamente i conti senza poi farsi tanto male. Senza che nessuno ci rimetta le penne. Finché ciò è possibile. La nostra tendenza, voglio dire, è quella di semplificare, di ridurre le cose a schema, di eliminare tutto quello che non ci appare immediatamente attuale e di attribuire un fatto o un fenomeno (ad esempio la trattativa di cui parliamo) a un singolo episodio, a un breve periodo.

Di solito si fa risalire questa improvvisa scoperta dello Stato a trovare punti di incontro con il presunto nemico, al 1992, quando al tavolo siedono rappresentanti istituzionali ed emissari di Riina e Provenzano, o, meglio, i teorici che avvertono la crisi irreversibile del sistema dei partiti, dovuta agli scandali e alla fine della guerra fredda. E sanno che il mondo che verrà non sarà più quello di prima. Lo sanno i bombaroli e lo sa don Vito Ciancimino che li rappresenta. Ma lo sanno anche gli altri, quelli che in nome dello Stato cercano il male minore. O fingono una benefica mediazione. Il male minore rispetto a che cosa? Ecco l’interrogativo che mi pongo. La risposta richiede una analisi su vari livelli di discussione:

-Possono trattare due soggetti alla pari e reciprocamente autonomi, ma non due o più realtà organicamente legate dalla stessa nozione del potere. In quest’ultimo caso non si dovrebbe parlare di trattativa ma di revisione strategica, rispetto a un obiettivo comune. Ad esempio, la lotta contro il comunismo. O, per dirla meglio, contro la democrazia costituzionale.

-Il trattare fa parte di un costume, di una legittimazione reciproca. E’ uno scambio. Io ti dò questo e tu mi dai quest’altro. Non credo sia il caso italiano perché la mafia non è un organismo che tratta. Impone le sue scelte con bombe, stragi ed omicidi sistematici ed elimina gli squilibri che le turbano.

-Al ricorrente uso del termine ‘trattativa’ è sempre mancata la sua dimensione storica. Cioè quella continuità che ne determina il peso specifico e il significato più reale. In questo senso si capisce lo sforzo che fa Salvatore Borsellino di datare la prima trattativa all’epoca in cui la mafia avrebbe deciso di eliminare Salvo Andò, Carlo Vizzini e Calogero Mannino. Trattativa che avrebbe avuto come effetto ultimo la morte di Paolo Borsellino. Ma in questi termini non se ne coglie una evoluzione coerente e l’intreccio degli interessi Stato-mafia, appare molto improvviso e incoerente. Per cui, mutati i tempi, con la nascita di un nuovo soggetto politico sarebbe derivata l’insorgenza di una nuova e più avanzata trattativa, con la messa fuori gioco dei vecchi interlocutori e l’affermarsi di altri soggetti.

La motivazione del bisogno di Cosa Nostra ad avere un proprio referente politico nel governo nazionale ci è consegnata dalla storia: l’anticomunismo. Nasce e produce i suoi effetti per attaccare la laicità dello Stato, i principi costituzionali, il rischio di un reale potere democratico delle masse popolari, del mondo del lavoro.

Gaspare Spatuzza, uomo dei Graviano, è il primo a sondare i tentativi della mafia in questa direzione, dopo il crollo del muro di Berlino.

I governi che derivano da queste elezioni sono due: il pentapartito di Giuliano Amato e il quadripartito di Carlo Azeglio Ciampi (23 aprile 1992 – 16 gennaio 1994). Sotto il governo del primo avviene la cattura di Totò Riina, il capo di Cosa Nostra (15 gennaio 1993). Il quadro è instabile. La Dc e il Psi sono dentro una dissoluzione senza ritorno. Al termine di questo vortice c’è la nascita di Forza Italia, il partito di Berlusconi e Dell’Utri, chiamati in causa da Spatuzza.

Dopo l’arresto di Bernardo Provenzano (11 aprile 2006) sono catturati ben sedici mafiosi. Nel giugno 2006 Nino Rotolo, nel dicembre 2007 Salvatore Lo Piccolo. Il governo non è quello di Berlusconi ma di Prodi durato dal 17 maggio 2006 al 7 maggio 2008, data di insediamento del quarto governo del cavaliere.

Il 15 novembre 2009 è arrestato, a Calatafimi, Domenico Raccuglia, latitante da quindici anni, del quale si scopre un arsenale nelle campagne di Partinico sufficiente ad armare un plotone. In contemporanea allo Spatuzza day sono arrestati a Palermo e a Milano, altri due pezzi da 90 della mafia siciliana: Gianni Nicchi, 28 anni, alias Tiramisù, boss emergente successore di Raccuglia e quindi capo della mafia di Palermo, e Gaetano Fidanzati, 74 anni, “re del narcotraffico”, da trent’anni attivo su Milano.

Insomma un’effervescenza che sembra fare registrare un’effettiva mutazione dei rapporti di forza della mafia. Ma è così? Nessuno si faccia trarre in inganno. Ci troviamo di fronte all’emergere di mafie più aggressive e moderne, capaci non solo di controllare il narcotraffico, cosa che avviene tramite gli Stati dell’Asia centrale, ma soprattutto attraverso le risorse energetiche di gas e petrolio. Questo è il vero salto di qualità criminale che vede la Russia di Putin e Mevdevev, assurgere a nuovo modello degli Stati controllati da menti criminali di primo livello. Come aveva capito e dimostrato l’eroica giornalista Anna Politkovskaya.

Dobbiamo prendere atto del fatto che c’è un livello superiore della mafia che ha stravolto la società e i modi di agire. Che la questione fondamentale di oggi non è tanto e più la delega a Cosa Nostra dell’equilibrio istituzionale e del blocco democratico. Non sono più gli Stati singolarmente presi. E’ un nuovo dominio mondiale la cui storia e i cui segnali si leggono nella sequenza di ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni. Il mutato atteggiamento occidentale nei confronti del mondo arabo, la trasformazione del Mediterraneo in un bacino di tensioni e di guerre, oltre che di continue aggressioni, il controllo politico-militare di Paesi come l’Iraq, l’Afghanistan, il Libano, il mondo palestinese, i grandi Stati della costa africana.

Uno scenario al cui interno i fatti di casa nostra sembrano dati provinciali di scarso significato. E tuttavia sono questi dati a spiegarci l’ampiezza delle questioni che abbiamo avuto davanti nel corso di questi ultimi decenni. Dalla strage di via Fani in cui persero la vita Moro e gli uomini della sua scorta, agli assassini di Mattarella e La Torre, fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Vicende tutte nelle quali è l’elemento del terrorismo a denotare il diverso e inedito livello della particolare storia italiana. Ed è la collocazione strategica dell’Italia sullo scacchiere internazionale a determinare quelle vittime e quelle stragi. Fatti che hanno tutti un denominatore comune: mandanti occulti e remoti interessati a deviare il corso della nostra storia nazionale per renderla funzionale alle strategie politiche internazionali, alle logiche dei poteri criminali, saldamente uniti dalle stesse matrici.

Si tratta di un filo unitario e coerente in cui si sono registrati fatti stragistici senza verità e senza giustizia come Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Brescia, Treno Italicus, le stragi del ’92 e via di seguito. Tutti con un solo obiettivo: isolare la democrazia, sottoporre l’Italia a una libertà condizionata. Regime che il nostro Paese aveva subito dai tempi di Truman, quando una cortina di ferro si era abbattuta sull’Europa.

Per questo motivo ci è apparsa spropositata la reazione del presidente della Repubblica alle intercettazioni telefoniche disposte dalla procura di Palermo sulle conversazioni dell’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, negli scorsi mesi. Ma non per le prerogative che nessuno ha mai voluto togliere al Capo dello Stato, ma perché una figura così autorevole come quella di Napolitano non può additare i pubblici ministeri palermitani impegnati in una battaglia difficilissima contro la mafia, come responsabili di chissà quali illeciti. Tanto più che non è in discussione Napolitano ma il suo consigliere D’Ambrosio nei suoi rapporti con l’ex ministro degli Interni.

Additare all’isolamento un magistrato non è cosa bella, specialmente in questo periodo in cui appare fuori discussione che una trattativa tra Stato e Mafia, ai massimi livelli ci sia veramente stata. Come ci fu ai tempi di Portella e degli assalti alle Camere del Lavoro del 1947 con Giuliano. Costò cento poveri ragazzi del Nord ammazzati dal bandito e la decapitazione di tutto il gruppo dirigente del movimento sindacale siciliano. Non era pertanto da escludere l’ipotesi resasi, anzi doverosa, che, allora, un patto fosse stato suggellato tra gli ideatori ed esecutori della reazione antipopolare ed elementi del governo De Gasperi che avevano coperto la verità sotto l’ombrello protettivo degli Usa, come oggi è ampiamente provato (si veda per tutti ‘La santissima Trinità’ di Tranfaglia, Milano, Bompiani, 2011).

Dopo Napolitano, è iniziata la sequela degli attacchi ai Pm di Palermo, da parte della stampa. Ieri è stato un certo Andrea Cangini, baldanzoso tirocinante della penna, ad attaccare Ingroia definendolo “uomo istintivamente attratto dall’iperbole”. Domani saranno i professionisti della stampa a meglio definire le trappole dell’isolamento.

Una prova di questo eccesso sarebbe, tra l’altro, il fatto che il sostituto procuratore aveva disposto la riesumazione della salma di Giuliano, per accertare la vera identità del morto, visto che detta identità era messa in discussione da autorevoli testimoni diretti. Un vero e proprio sproposito del magistrato, a giudizio di questo sedicente giornalista. Come se non gli bastassero i quattrocento delitti, tra omicidi e stragi, che gravavano sulle spalle del più potente delinquente italiano del Novecento. E come se la “morte” del monteleprino non risultasse attestata da un falso rapporto sul conflitto che ne sarebbe stato la causa, scritto dalla vivida fantasia del capitano dei Carabinieri dell’epoca, Antonio Perenze, uomo dei servizi segreti italiani già dal tempo del fascismo. Un falso avallato allora dal colonnello dei Carabinieri Ugo Luca che dopo averlo sottoscritto fu promosso a generale.

Quello che potrà succedere domani lo possiamo immaginare: una mafia che rialza la testa; una stampa che si affina sempre di più nella disinformazione; l’isolamento fino all’ostracismo di chi cerca la verità dentro un andazzo comune che tende alla normalizzazione. Quella che Falcone e Borsellino odiavano.


DOSSIER: 
Via d’Amelio vent’anni dopo tra depistaggi e trattative

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