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 Home page > Tribuna Libera > Riconoscere la Palestina?

Riconoscere la Palestina?

Naturalmente la domanda è solo retorica, dal momento che sappiamo bene che la comunità internazionale si è già dichiarata a favore dell'esistenza di uno stato arabo, accanto ad uno ebraico, con la risoluzione 181 dell'assemblea generale dell'ONU del novembre 1947.

Risoluzione che anche la Svezia a suo tempo aveva sottoscritto, ma che gli arabi rifiutarono, innestando uno scontro armato non ancora giunto alla fine.

L’iniziativa della Svezia, il 135° paese che ha ufficialmente riconosciuto lo Stato di Palestina, ha però, oggi, un significato diverso, un significato di rottura dell'attuale stallo nelle trattative. Ed ha immediatamente avuto un seguito a Londra, dove il parlamento ha votato a larga maggioranza dei presenti (che però erano meno della metà dei parlamentari) una mozione che invita il governo di procedere con il riconoscimento formale

Anche se su il Manifesto si legge un'imprevedibile, severa critica, significativa di come, a sinistra, le idee siano tutt'altro che chiare: “Il riconoscimento dello Stato palestinese ha sancito invece l’allineamento dei laburisti inglesi sulla soluzione, tanto cara al presidente USA George Bush jr., dei 'due stati' per mettere fine al conflitto. Ma la forte presa di posi­zione dei labu­ri­sti inglesi di Ed Mili­band a favore del rico­no­sci­mento dello Stato pale­sti­nese e la sua impo­si­zione di que­sta come una linea di par­tito, per evi­tare defe­zioni dei depu­tati labu­ri­sti, non hanno man­cato di susci­tare malu­mori. Molti par­la­men­tari labu­ri­sti ave­vano chie­sto libertà di coscienza”.

Anche a Parigi dove fra i socialisti serpeggia intenzione simile per promuovere una proposta in cui i confini del nuovo Stato dovrebbero essere “quelli del ‘67” (che non sono mai stati "confini" ma solo la linea verde dell'armistizio del '48) esattamente come sostiene anche la Svezia.

L’iniziativa di alcuni paesi europei, unita al noto malumore della presidenza americana (per quanto ormai in difficoltà per l'esito delle elezioni di Midterm) verso il governo Netanyahu, sta mettendo in difficoltà diplomatica lo stato ebraico che di sicuro non è uscito sugli scudi, né moralmente né politicamente (e forse nemmeno militarmente), dall’ultimo scontro con Hamas. Sulle cui origini, motivazioni e conclusioni ho già detto la mia.

Il protrarsi di un conflitto di cui nessuno riesce a vedere la fine, pone seri problemi di dialogo fra il mondo islamico - sempre più in subbuglio per motivi che sono forse più endogeni che esogeni - e un occidente quanto mai distratto, balbettante, incerto e così “privo di strategia” da costringere perfino il Presidente della maggior potenza mondiale a doverlo ammettere pubblicamennte.

Facendo ovviamente gongolare i repubblicani tronfi della loro recente vittoria elettorale e delle loro certezze in politica estera (estremamente semplici: rompi tutto, poi si vedrà).

Se gli USA sono senza strategia, figuriamoci l’Europa, niente più, tuttora, di una pura e semplice espressione geografica economicamente confezionata sui diktat di Berlino e con “ministri degli esteri” finora tanto evanescenti e impalpabili quanto una brumosa mattina sulla brughiera del Lancashire (da cui proveniva Lady Ashton).

Anche se i termini per la fine (concordata) del conflitto israelo-palestinese furono chiaramente delineati nella bozza di Ginevra del 2000 (completata nel 2003) - su cui entrambe le parti si sono trovate d’accordo, ma che nessuno ha mai ratificato, né da una parte né dall'altra - sembra evidente che quei termini non sono stati in grado di cogliere l’essenza (almeno quella attuale) dello scontro in atto.

In altre parole, il conflitto può vedere la fine solo se la sua motivazione riconosciuta dalle parti è ancora quella iniziale, cioè quella territoriale.

I termini dell’accordo informale di Ginevra infatti misero a fuoco esattamente i punti relativi alla gestione del territorio: confini, status di Gerusalemme est, integrazione degli insediamenti coloniali nel territorio metropolitano di Israele e cessione compensativa di territorio israeliano alla Palestina, ritorno unicamente simbolico dei profughi del ’48, smilitarizzazione della West Bank, controllo internazionale nella valle del Giordano, libero collegamento stradale tra Gaza e Cisgiordania, fine dell’embargo israeliano sulla Striscia e apertura del valico egiziano di Rafah, cessazione del blocco navale.

Roba così. Che Ehud Barak propose alla controparte palestinese nel 2001, salvo bloccare tutto, dopo l'ennesimo attentato terroristico.

Non era una proposta da poco, visto che si trattava di un accordo complessivo che lasciava intravedere finalmente la cessazione delle ostilità, un accordo non così complicato da raggiungere: in fondo fino a tre anni fa (oggi le cifre saranno altre, ma non poi così tanto diverse) nella West Bank sono stati costruiti insediamenti la cui superficie non superava la percentuale del 1,1% dell'intero territorio

Parole del negoziatore palestinese Erekat che dichiarò che: "Nonostante la costante politica Israeliana di "occupazione e costruzione di nuove colonie", una fotografia aerea fornita da fonti europee mostra che gli insediamenti sono stati costruiti su un territorio pari all'1,1% della Cisgiordania, legittimando così la richiesta palestinese per un ritiro dai confini, sulla base dei confini del 4 giugno del 1967" ("despite Israel’s continued policy of “occupation and settlement building”, an aerial photograph provided by European sources shows that settlements have been built on approximately 1.1% of the West Bank, thus legitimizing the Palestinian demand for a withdrawal to borders based on the June 4, 1967 borders").

Proprio l'esiguità del terreno occupato realmente, al di là degli alti lai della propaganda politica, sarebbe all'origine della richiesta palestinese di riconoscere proprio la linea verde del '67 come confine condiviso.

Non sarebbe quindi davvero impossibile raggiungere un accordo e se il piano di pace fosse concordato, le prospettive di pace permanente sarebbero reali; ma se si tratta di iniziative unilaterali (per quanto sorrette ed approvate dalla comunità internazionale) la storia ci insegna che si possono aprire prospettive tutt’altro che pacifiche.

La prova sta proprio nel fatto che anche Israele nacque su iniziativa unilaterale (degli ebrei che accettarono la delibera ONU), non concordata con gli arabi che anzi vi si opposero. A questa decisione sono seguiti settant’anni di conflitto pressoché ininterrotto.

Ora c'è il rischio di seguire la stessa strada dell'unilateralità, che potrebbe portare ad altri settant'anni di conflitto.

E c’è da chiedersi perché, dal momento che, come abbiamo appena ricordato, la prospettiva di un accordo condiviso c’era ed era seria, approfondita ed articolata, nel momento in cui affrontava tutti i temi del contenzioso territoriale.

Ma forse proprio qui i nodi vengono al pettine. Perché finché si tratta di conflitto territoriale la soluzione, presto o tardi, arriva. Si tratta di continuare a discutere fino allo sfinimento dell’ultimo chilometro, metro o centimetro che sia. Alla fine il punto di accordo necessariamente si trova.

Ma non c’è più alcuna soluzione se la questione si sposta dal piano territoriale a quello politico religiosamente orientato.

Spostamento determinato sia dall’antico ideale della destra israeliana di voler realizzare la Grande Israele biblica (cioè uno stato ebraico su tutto il territorio tra il Giordano e il mare) - ma anche l’idea che Gerusalemme debba necessariamente essereindivisa” - che la volontà delle organizzazioni palestinesi tipo Hamas, Jihad eccetera che, non facendo i conti con la storia, continuano a pretendere di voler fondare il loro stato sullo stesso territorio tra il Giordano e il mare, cioè su tutto il territorio considerato waqf, terra islamica affidata alle generazioni dell'islàm fino al giorno della resurrezione e perciò incedibile, intoccabile, indivisibile.

Sulle due versioni speculari e contrapposte della terra sacra non c’è soluzione che tenga perché la questione è stata fatta migrare sul piano religioso. E il conflitto religioso non ha punti di mediazione possibile.

Il riconoscimento della Svezia (e degli altri 134 paesi prima di lei) ha quindi un valore puramente simbolico - di sicuro non avrà la capacità di imporre alcunché - che però può essere allo stesso tempo importante e/o deleterio.

Importante proprio perché potrebbe riportare il conflitto alla logica "territoriale", per quanto essa sembri ormai assolutamente minoritaria fra i contendenti: solo la sinistra israeliana (che conta quanto il due di picche) e Abu Mazen (così delegittimato da rifiutarsi di indire nuove elezioni anche se il suo mandato è scaduto da anni) credono ancora che una trattativa - nei termini della “dialettica” territoriale - sia possibile.

Mentre i falchi dei due schieramenti non lo credono (forse da mai). E il problema è che quando i due popoli vengono chiamati a votare optano proprio per i falchi: gli israeliani, almeno dalla guerra dello Yom Kippur, per partiti sempre più arroccati sul tema della sicurezza (e Netanyahu potrebbe non essere il più oltranzista dei premier futuri) e i palestinesi per Hamas, sempre più arroccato sul tema dell’opposizione militare "all'entità sionista" che spesso si rivela essere più provocazione che resistenza (e già occhieggiano a Gaza formazioni ancora più estreme, sensibili al richiamo ultraislamista del Califfato).

Nel frattempo sono già due i razzi sparati da Gaza dopo l'inizio della tregua e si è accesa a Gerusalemme - dopo gli spari a un rabbino oltranzista ridotto in fin di vita - l'intifada dei "lupi solitari" che colpisce guidando auto. Chi mai li potrà fermare se non - è assurdo anche pensarlo - proibendo a qualsiasi palestinese di guidare una macchina?

Ma la destra ultrareligiosa preme per poter accedere alla spianata della moschea di al Aqsa alias Monte del Tempio. A pregare, si dice. Che sarebbe come se gli islamici italiani pretendessero di pregare a San Pietro in nome di una (formalmente ineccepibile) libertà di culto. Il termine corretto è "provocazione".

I due popoli quando votano danno la loro fiducia, in sintesi, proprio a chi parla di sicurezza (scordandosi le proprie provocazioni) o di resistenza e riscatto (scordandosi le proprie provocazioni).

Si può anche capire perché lo facciano e perché abbiano così poca fiducia nei moderati di entrambi gli schieramenti, ma quelli che votano sono gli stessi che hanno volutamente spostato l’intera questione israelo-palestinese su un piano che appare irrimediabilmente senza soluzioni. Se non drammaticamente sanguinose.

Quindi se il riconoscimento della Svezia (e degli altri) riesce a dare fiato, corpo e anima ai due schieramenti trattativisti (cioè quelli che hanno mantenuto i piedi "sulla terra" nel senso concreto del termine) la cosa avrà avuto un senso positivo, politico e strategico.

Ma se non sarà chiaramente indirizzato potrà essere utilizzato, in un senso o nell'altro, dalle ali estreme, quelle che usano la religione per fare politica o la politica per imporre dettami religiosi.

E con esiti forse peggiori di quanto non sia ora: si sarà ripristinato - ma solo a parole - un indiscutibile diritto storico (quello di farsi Stato, che i palestinesi stessi peraltro avevano rifiutato settant'anni fa) e contemporaneamente si sarà radicalizzato lo scontro fino, ed oltre, al punto di non ritorno.

Il tutto con un presidente americano, ricordiamocelo, ridotto ormai ad essere un'anatra zoppa e il Califfato islamico sempre più vicino.

 

Foto: Wall in Palestine, Flickr.

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