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Riccardo Mannerini, nel segno di De André

Riccardo Mannerini, Il sogno e l’avventura, a cura di Francesco De Nicola e Maria Teresa Caprile, Genova, Liberodiscrivere edizioni, 2009, pp. 381, € 14,50.

Il sogno e l’avventura è una raccolta di poesie scritte da Riccardo Mannerini tra il 1955 e il 1980, anno in cui si è suicidato, a Genova. Qualcuno ha scritto di lui che “ha insegnato la poesia ai cantautori”: è stato vicino a Luigi Tenco e a Bruno Lauzi, ha scritto testi per i New Trolls, ma soprattutto ha collaborato a lungo con Fabrizio De André. Un’esistenza breve e sfortunata, quella di Mannerini – scorbutico, schietto, anarchico e autodidatta - una vita spericolata trascorsa tra guerre e viaggi per nave, spalate di carbone e corsie d’ospedale. Una vita consegnata ai componimenti inclusi in questo libro e ricostruita attraverso le attente letture di Francesco de Nicola (Università di Genova) e Mauro Macario.

Il libro è per chi crede che possiedano anime candide anche gli uomini che hanno mani annerite dall’ombra; per chi crede nella singolarità di uno sguardo che rimane limpido anche quando un incidente sul lavoro ha condannato alla cecità. Si leggono i testi e ci si immerge nel flusso rabbioso di un poeta che racconta fatti fotografando oggetti, vesti e luoghi e che in una smozzicata frase gettata in mezzo tra un uomo e una donna, un giorno qualunque, in un posto come un altro, racchiude la speranza di farcela o la voglia matta di farla finita.

Questi componimenti gridano la protesta di un uomo perdente e perduto che chiede solo di ritrovarsi, di ritrovare la strada; parlano a quelli che almeno una volta hanno visto la bruttezza del mondo e almeno una volta hanno accarezzato sogni infantili, per il tempo di un drink, per raccontarli a quattro amici intorno al tavolo di un bar.

A parlare è un’umanità derelitta, trascurata, tradita dalla vita: lo scaricatore di porto, la prostituta, il soldato morto in combattimento, il criminale che ha violentato una ragazza, un uomo due ore prima di morire sulla sedia elettrica, a san Quintino. Li vediamo e li tocchiamo e insieme a loro ci aggrappiamo a quell’unica donna che è amante, moglie, sorella e madre addolorata e che sta lì ad assisterci quando la disperazione si fa più cupa.

Il tono è scanzonato, come di chi abbia già capito molto e deciso quasi tutto. Qualcuno che in questo nostro tempo si sente a disagio; non comprende perché accadano gli omicidi e le guerre, ma sa che è così che va il mondo. Poi ascoltiamo un verso in inglese, qualche parola in gergo buttata sulla pagina come uno scampolo di conversazione ordinaria e ci sembra di sentir parlare uno di quegli angeli maledetti, puri, belli, destinati a finire ammazzati:

E vorrei/ rimanere lì,/ a commuovermi,/ till the last moment,/ fino all’ultimo momento,/ fino a quando/ qualcuno,/ battendo/ con le nocche/ sul mio certificato di nascita,/ non verrà a dirmi:/ ”Hairisch, i’m sorry,"/ scusami,/ ma è la fine

Quella di Mannerini è una lingua viscerale, che asseconda l’urgenza del dettato. E’ una lingua spesso gridata, giusta per la musica, sebbene il verso, le parole, manchino quasi sempre di musicalità.

Emergono dalla raccolta anche testi sottoposti ad una maggiore vigilanza strutturale, disposti in un impianto più elaborato: in questi casi, senza perdere l’autenticità e l’immediatezza del tono colloquiale, la poesia conquista – nel gioco di rime e di assonanze – la pienezza espressiva:

Sì, ho tentato/ fra le pieghe di una vita/ ormai scontata/ la misura di un motivo,/ un cristallo, una schiarita,/ ho cercato, insomma, te./ (No). Non andartene nel buio/ trema il mondo,/ tremo anch’io,/ non socchiudere la tenda/ lascia stare ogni domanda

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