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Resistenza o terrorismo? Il dilemma irrisolto

VERSIONE RIDOTTA dell’articolo apparso su Gnosis, Rivista Italiana di Intelligence, n.2-2006 (clicca per consultare l’indice del volume)

Non esiste una definizione univoca del termine “Terrorismo”. Si oscilla fra l’idea che il terrorista sia il combattente illegittimo, in quanto soggetto non statuale, e quella per cui il terrorista è chi faccia ricorso a particolari forme di lotta bandite dal diritto1. Nel primo caso terrorista sarebbe ogni combattente irregolare (partigiano, insorto, rivoluzionario, guerrigliero ecc): ma questo travolgerebbe il “diritto di resistenza” contro un ordinamento ingiusto, che è alla base della democrazia2, inoltre non esiste Stato, partito o aggregazione politica che non sostenga una qualche lotta armata irregolare.
Nel secondo, occorrerebbe definire quali siano le forme di lotta bandite, ma questo finirebbe per includere anche diversi eserciti regolari3.

(...) questa difficoltà di ottenere una definizione insieme chiara, univoca ed esaustiva del fenomeno è, in realtà, il riflesso di una operazione concettualmente sbagliata: presentare come definizione scientifica quello che, invece, è una operazione politica, probabilmente lecita, ma comunque soggettiva ed opinabile.

Si rifletta su un dato: nessun combattente irregolare si è mai definito terrorista ma, di volta in volta, patriota, partigiano, rivoluzionario ecc, così come nessun potere sfidato ha mai concessola qualifica di partigiano o simili ai suoi avversari, definendoli invariabilmente terroristi, banditi, criminali ecc.
(….) (la qualifica di terrorista contiene una valutazione tesa a delegittimare l’avversario)

Dunque, si tratta di mere considerazioni politiche, ancorchè trasferite in testi di natura giuridica come convenzioni internazionali o leggi penali. Restando su un terreno avalutativo, parleremo piuttosto di guerra asimmetrica (o, se si preferisce, irregolare o non ortodossa) che può manifestarsi come “terrorismo di Stato” o “Guerra ai civili”, come “guerra coperta”, come “terrorismo internazionale” o “insorgenza”. Cose assai diverse fra loro messe nello stesso sacco generic del “terrorismo”.

Consideriamo il caso che veda contrapposto un soggetto sovrano (uno Stato) ad uno non sovrano (l’organizzazione “terrorista”). Il soggetto non sovrano tende, in un modo o nell’altro (conquista del potere interno, secessione di parte del territorio, conquista o ri-conquista dell’indipendenza di un paese occupato o colonizzato) a trasformarsi in soggetto sovrano a scapito del potere sfidato. 

L’asimmetria del conflitto è data dalla diversa natura dei contendenti (sovrano l’uno, non sovrano l’altro) che implica una conseguenza sul piano militare: arei, carri armati ed artiglieria pesante non sono occultabili e richiedono un territorio su cui si esercita il pieno controllo, quel che normalmente l’insorto non ha4, per cui egli non ha alcuna probabilità di vittoria in uno scontro in campo aperto ed è costretto alla clandestinità per avere qualche probabilità di vittoria5. Tutto questo produce un riflesso speculare: il soggetto sfidato è esposto ai colpi del nemico perchè gli obiettivi (caserme, istituzioni, infrastrutture, uomini) sono immediatamente individuabili e non occultabili, viceversa, l’irregolare non ha alcun obiettivo visibile… L’invisibilità è l’arma strategica dello sfidante.

Pertanto, il soggetto sfidante cercherà di portare i suoi colpi dove l’antagonista è più vunerabile, secondo la logica del minore sforzo e del massimo risultato, così da provocarne il crollo psicologico, economico o politico.

Infatti, il potere sfidato non può permettersi l’eccessivo prolungamento di una situazione simile:
- la domanda di sicurezza dei cittadini esige soddisfazione in tempi “rapidi”; dopo un certo periodo, la prosecuzione degli attentati incrina il clima di unità nazionale e determina spinte a trovare “una via d’uscita purchè sia”6
- le misure eccezionali di limitazione delle libertà personali e collettive appaiono sempre meno giustificabili nel tempo, sia perchè una emergenza è tale se dura un periodo ragionevole, sia perchè se gli attentati proseguono vuol dire che sono inefficaci.
- il costo economico delle misure di protezione non può essere sostenuto in eterno
- gli stessi apparati repressivi (esercito, polizia, servizi) oltre un certo limite, possono subire diserzioni ed ammutinamenti o, all’opposto, orientarsi a prendere il potere direttamente, spodestando l’autorità politica ritenuta non in grado di far fronte alla situazione.
(…) il tempo non lavora a favore dello sfidato ma dello sfidante che punta al logoramento. (…)

Di qui la tendenza del potere sfidato a cercare il “colpo risolutivo” nel minor tempo possibile, mentre l’irregolare non ha il problema immediato della sconfitta dell’avversario (...). Di qui il “paradosso del guerrigliero” per il quale l’attaccato (il potere costituito) non può chiudersi in difesa, ma deve andare all’attacco, mentre lo sfidante, applicando la tattica del “mordi e fuggi”, gode del vantaggio dell’iniziativa ed insieme di quello della difesa. Una situazione militare unica che riequilibra la sproporzione dei rispettivi armamenti.

Questa dinamica induce ad un diverso atteggiamento psicologico dei due contendenti: l’eversore pensa di star combattendo una guerra, per quanto irregolare, e ritiene di avere diritto ad essere considerato un combattente politico. Al contrario, il potere sfidato pensa che si tratti di una azione criminale da trattare come tale, imponendo il rispetto delle sue leggi. Per il primo si tratta di una guerra, per il secondo di repressione del crimine7.
Il potere sovrano non può accettare l’altro come justus hostis né cercare un confronto politico, perché questo apparirebbe come un riconoscimento dello jus ad bellum del suo avversario. (…) questo potrebbe aprire la strada a sgraditi interventi internazionali. Infine, un atteggiamento “dialogante” potrebbe incoraggiare nuove sfide.

Stretto dal bisogno di chiudere rapidamente la partita senza far concessioni, il potere sfidato punta sulla sola soluzione repressiva: la rapida debellatio del nemico. Ma ciò mal si concilia con l’applicazione delle usuali procedure di polizia, (...) di qui l’esigenza di superare i limiti della giurisdizione ordinaria e la scelta di combattere una guerra che, però, non può chiamarsi tale.

Questo apre una serie di contraddizioni; innanzitutto il “terrorista” è un criminale del quale si riconoscono le motivazioni politiche e non di lucro personale, ma questo non costituisce un’attenuante, ma, al contrario, una aggravante che inasprisce le pene e rende somarie le procedure.

In secondo luogo, se non si tratta di guerra ma di repressione del crimine, non si comprende il motivo di leggi eccezionali e, viceversa, se la lotta al terrorismo è uno stato assimilabile a quello della guerra la responsabilità delle operazioni dovrebbe passare dalla polizia ai militari e dovrebbero essere applicati il codice penale e di procedura penale militare di guerra, ma questo implicherrebbe sia delicati problemi sulla custodia dei prigionieri8 ecc, sia un pericoloso spostamento di potere dall’autorità politica ai militari.
Si sviluppa in questo modo “l’ideologia antiterrorista” che non coincide con la nozione di contrasto al terrorismo ma con una rappresentazione ideologica –appunto- di esso, basata su questi presupposti basilari:

a- per battere il “terrorismo” le misure repressive straordinarie sono sufficienti e, comunque, prevalenti rispetto a quelle politiche che devono subordinarvisi
b- pertanto l’autorità politica delega la direzione della lotta al terrorismo agli apparati di sicurezza
c- la risposta legislativa si baserà sulla ricetta: inasprimento delle pene, procedure sommarie, limitazione delle garanzie
d- le forti contraddizioni che tutto ciò aprirà con la normativa internazionale9 e costituzionale verranno sanate dalla categoria dell’ “emergenza”, un succedaneo edulcorato dell’antico “stato d’assedio”, per il quale si produce una normativa “eccezionale” proprio in grazia dell’ “eccezionalità” della situazione.

Un mix che consente diversi successi iniziali, ma innesca un pericolosissimo congegno ad orologeria destinato ad esplodere.
Da un punto di vista militare, il terrorismo rappresenta un problema di scarsa importanza, perché la sproporzione delle forze assicura una facile vittoria una volta identificata la base avversaria.

Per questo il terrorismo rappresenta un problema soprattutto sul piano investigativo e viene combattuto con gli strumenti consueti (infiltrazione, pedinamenti, intercettazioni, analisi dei testi ecc.) ma prima o poi si affaccerà la tentazione di ricorrere ad un mezzo più sbrigativo: il ricorso alla tortura. Dopo alcuni successi iniziali, la tortura produrrà risultati minimi e costi molto alti per lo Stato (delegittimazione internazionale, intervento di organismi internazionali, indebolimento della legittimazione interna, imbarbarimento dello scontro ecc.)
In definitiva, un pessimo affare per il potere sfidato (...). 

Sul piano politico, il potere sfidato solitamente reagisce all’interno con la demonizzazione dell’avversario presentato come nemico dell’intera comunità, allo scopo di:
- evitare che la propaganda avversaria possa far breccia in settori dell’opinione pubblica
- ottenere la mobilitazione attiva della società civile contro il terrorismo (denuncia dei sospetti, segnalazione di eventi irregolari ecc).

In questo senso l’”oscuramento” delle reali finalità politiche del nemico è una scelta voluta: il “terrorista” è per definizione “folle”, “barbaro”, “insensato”, dunque, privo di razionalità politica. Ed il guaio peggiore è che il potere sfidato finisce per convincersene diventando la prima vittima della sua stessa propaganda.
Sul piano internazionale, il potere sfidato reagisce cercando di inibire eventuali appoggi di altri Stati al proprio nemico denunciando agli organismi internazionali la condotta di quelli che li aiutino. In qualche caso, lo Stato in questione reagisce simmetricamente: appoggiando (o minacciando di appoggiare) l’eventuale eversione interna dello Stato ostile10. In questo quadro di azione politica internazionale va inserito anche lo sforzo per giungere a Convenzioni internazionali contro il terrorismo che, tuttavia, sono di fatto uno strumento a disposizione dei soli paesi con maggiore influenza internazionale. Ma, come si vede, anche in questo caso, l’azione politica è impiegata in funzione servente rispetto a quella repressiva.

L’ideal-tipo dell’antiterrorismo è quello di una operazione chirurgica che estirpa una cisti dal corpo sano della società. In questo modo si ottiene la massima tensione degli apparati repressivi, ma si rinuncia a sfruttare gli elementi di debolezza politica dell’avversario. La guerra al terrorismo diventa rapidamente “totale” tesa all’annientamento dell’avversario, che perciò stesso si radicalizza.

Il danno maggiore di questa scelta è la graduale perdita di contatto con la psicologia dell’antagonista (e in un conflitto di questo tipo riuscire ad immedesimarsi nel modo di pensare dell’avversario è di fondamentale importanza) e, di solito, è assai difficile battere un avversario che non si comprende11.
L’ideologia dell’antiterrorismo diventa una partita a mosse obbligate al termine della quale il più delle volte (ma non sempre) c’è la sconfitta dello sfidante ma a prezzi umani, politici ed economici assolutamente spropositati:

- spesso questa soluzione produrrà un allungamento del conflitto anzicché una sua abbreviazione, e molte più vittime

- un sensibile aumento dei costi economici che, talvolta, porteranno al collasso della moneta12


- la delega agli apparati repressivi comporterà anche una modifica a loro favore dei rapporti di potere con l’autorità politica13
- molti elementi della legislazione dell’emergenza diventeranno elementi permanenti dell’ordinamento penale, con conseguenze spesso imprevedibili14

Dunque, cosa fare contro il terrorismo? Innanzitutto liberarsi della “ideologia dell’antiterrorismo” e capovolgere i termini della questione. L’ideologia antiterrorista individua il suo nemico in un criminale che ha delle scopi politici. Al contrario, occorre partire dalla constatazione che il “terrorista” è un soggetto politico che fa ricorso a metodi penalmente rilevanti.
Questo, ovviamente, non significa rinunciare all’aspetto repressivo (comunque inevitabile) né scegliere necessariamente la linea della trattativa15 o, tantomeno, della resa, ma, affrontare lo scontro subordinando l’aspetto repressivo a quello politico.

La politica può fornire gli strumenti per penetrare e dividere l’avversario, privarlo di alleati, scoraggiarlo ed indurlo ad abbandonare il conflitto armato. La partita non si chiude con l’uccisione o la cattura dell’ultimo “terrorista”16, ma quando i “terroristi” hanno la netta percezione dell’impraticabilità del proprio obiettivo. (...)

Dunque, assolutamente basilare è l’identificazione del reale obiettivo strategico dello sfidante che, frequentemente, non coincide affatto con quello dichiarato ed, in qualche caso, c’entra assai poco con esso. In secondo luogo occorre capire attraverso quali passaggi tattici egli mediti di conseguirlo. In entrambi i casi la raccolta informativa sarà essenziale ma ancor più importante sarà l’analisi politica: sapere dove si nasconde un quadro intermedio dell’avversario o da dove il gruppo si rifornisca di armi è importante, ma ancora di più è capire quale sia lo spettro di posizioni politiche presente nel suo gruppo dirigente, quale siano le vere scelte tattiche, quali i meccanismi di formazione della linea politica ecc.

Ottenuto un buon disegno dell’avversario, si potrà, di volta in volta, articolare una linea di contrasto che utilizzi sia l’azione repressiva17 che l’offensiva diplomatica, l’utilizzazione di aree intermedie come “diga” contro l’espandersi del fenomeno, riforme tese a migliorare la condizione del gruppo sociale o nazionale su cui l’avversario fa leva –così da ridurne il consenso. Fondamentale è comprendere le “ragioni forti” dell’avversario: farsene un ritratto caricaturale e svilirne le ragioni più profonde è sempre sbagliato e controproducente.

L’emergere di una guerra irregolare è sempre il sintomo di un malessere politico che va individuato.

BIBLIOGRAFIA

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Aldo GIANNULI

1) Vedi PISANO 1997 pp. 15-18; R. DE LUCA 2002 p. 17; G. PONTARA in L. BONANATE 1979 pp. 35-6; H. HESS 1991 pp. 5 e segg.; L. BONANATE 2004; M. FOSSATI 2003 pp. 4 e segg.; W. LAQUEUR 2002 p. 17 e segg; J. L. MARRET 2000 p. 5; P. MANNONI 2004 p. 43-4

2) Tutte le democrazie moderne sono nate da rivoluzioni contro il potere costituito: applicando questo criterio dovremmo definire terrorista anche George Washington.

3) Ad esempio i bombardamenti contro le città nemiche, con l’esplicito intento di colpire la popolazione civile e provocarne il collasso psicologico, rientrerebbero a pieno diritto in questa classificazione (ricordiamo Dresda ed Hiroshima)

4) Va considerato a parte il caso di guerriglie che dispongano di “territori liberati” …dove, talvolta possono munirsi di una dotazione di armi pesanti. In questi casi il soggetto irregolare è già diventato “semi sovrano” (nel senso che esercita un potere di fatto su parte del territorio) e la guerra tende a spostarsi sul piano del conflitto regolare come confronto fra due eserciti di forza, se non pari, comparabile, dunque lo stadio della guerra irregolare è superato.

5) Secondo C. GALLI 2002 p.63 l’asimmetria del conflitto si pone come difformità sia sul piano dei valori che su quello degli armamenti e dello status. A chi scrive queste note non sembra che la disparità di valori sia un elemento necessario in questo genere di conflitti.

6) E questo è ancora più vero nel caso di occupazioni militari di altri paesi.

7) Questa è la tesi centrale di Paul GILBERT (1997 ) che coglie, in questo modo, uno degli aspetti decisivi del fenomeno, pur senza trarne tutte le conseguenze.

Ad esempio sgraditissime ispezioni della Croce Rossa Internazionale sull’osservanza delle norme dui prigionieri di guerra.

9) A cominciare dalla dichiarazione dei Diritti dell’Uomo.

10) E’, per esempio, quanto è regolarente accaduto fra Turchi e Irakeni a proprosito della guerriglia curda.

11) Sintomatica di questa scarsa capacità della classe politica di comprendere il “terrorismo” ed affrontarlo è la lunga serie di errori e gaffes degli uomini politici in tema: da Bush che subito dopo l’11 settembre, propone agli stati islamici una “crociata” contro il terrorismo (sinchè qualche suo consigliere gli fa sapere che gli islamici non hanno un concetto granchè positivo delle crociate) ad Aznar che, nei primi minuti dopo Atocha, dichiara che si tratta di opera dell’Eta, senza capire che un gesto simile era così lontano dalla logica politica dell’Eta da non potere essere preso in considerazione neppure come depistaggio. Anche Blair, con le sue recenti misure antirterrorismo sembra stia facendo esattamente il contario di quel che servirebbe: dall’oscuramento dei siti che, invece, dovrebbero studiati sin nelle virgole dai servizi, alla chiusura delle moschee radicali che, al contrario, dovrebbero restare aperte per identificare e sorvegliare il bacino potenziale di reclutamento del terrorismo islamico.

12) E’ il caso francese nel quale le spese per la guerra di Indocina prima e di Algeria dopo costituirono la principale ragione dell’ondata di iper inflazione, alla fine della quale si rese necessario cambiare la moneta.

13) Ad esempio, nel caso italiano, questo spostamento nei rapporti di forza ha premiato essenzialmente la magistratura ed in particolare la sua parte inquirente. Il “giudice con l’elmetto” chiamato a “combattere il terrorismo” – in violazione di ogni principio di terzietà- aveva scoperto un suo ruolo autonomo.

14) Sempre per restare al caso italiano, segnaliamo come diversi istituti dell”emergenza” antiterrorismo (per tutti la legislazione premiale per i collaboratori di giustizia) sono poi restati nell’ordinamento, così come vi si sono radicati certi orientamenti giurisprudenziali, come la dilatazione oltre ogni limite del reato associativo, per cui la semplice appartenenza ad una organizzazione terroristica rendeva responsabili di ogni sua azione delittuosa, salvo prova contraria. L’una e l’altra cosa sono poi state ampiamente usate dalla magistratura inquirente, nella stagione di “Mani Pulite”, per colpire quella stessa classe politica che aveva contribuito ad originarli (“Non poteva non sapere” reciteranno molti rinvii a giudizio in piena sintonia con quella dilatazione del reato associativo di cui dicevamo).

15) Che è solo una delle possibili scelte politiche a disposizione e non sempre è la più auspicabile.

16) Pensare di battere il “terrorismo” colpendo uno per uno i suoi uomini è illusorio come pensare di sterminare le zanzare di una palude armati di spry e schiacciamosche.

17) Di cui è bene non abusare mai: Guantanamo non è una misura dura ma efficace, ma una brutale stupidità ed una dimostrazione di debolezza politica.

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