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Referendum: ma quale rottamazione e cambiamento?

Torna a farci visita Lucio Mamone, sempre ospite graditissimo e studioso brillante e approfondito. Buona lettura! A.G.

Sin dal suo esordio sulla scena politica nazionale il renzismo ha cercato di proporsi, prima ancora che come portatore di un programma politico determinato, come immediata espressione del “nuovo”. Che non fossero le proposte ad essere inedite non è peraltro mai stato nascosto dagli stessi renziani, i quali hanno piuttosto rivendicato a sé la volontà di cambiare. L’idea-guida della rottamazione esprime questo: la sostituzione del ceto politico per realizzare quelle promesse che lo stesso ha sempre propagandato senza avere però il coraggio di rispettare. 

Da una parte troviamo quindi un progetto che esplicitamente si pone in continuità con l’evoluzione del pensiero dei gruppi dirigenti europei, ed in particolare con la trasformazione blariana della socialdemocrazia, dall’altra un forte richiamo ad una costellazione motivazionale fatta di passione per il futuro, fiducia verso i giovani, desiderio di movimento. Una sorta di legame mitico-emotivo con il cambiamento insomma, che non si lascia ridurre all’effettiva novità dei singoli atti.

In modo del tutto naturale la campagna per il Sì ha fatto suo il linguaggio degli artefici della riforma, puntando tutto sulla caratterizzazione del referendum del 4 dicembre come “occasione per cambiare”. Di reazione il fronte del No ha posto l’accento sul fatto che il “cambiamento” non rappresenta un valore in sé, potendo essere a sua volta tanto migliorativo quanto peggiorativo, come nel caso in questione. Ma una strategia difensivista di questo tipo nuota contro la corrente dello spirito del tempo, in cui tutto e tutti professano la necessità di cambiare, anche le pubblicità dei frigoriferi. È dunque il caso di porre la questione in termini più radicali e chiederci innanzitutto: in che termini possiamo intendere la riforma Renzi-Boschi come un cambiamento?

Ad interpretare quanto dichiarato dai sostenitori del Sì, di cambiamento si tratterebbe essenzialmente per due ragioni: in primo luogo per la lapalissiana constatazione che una nuova legge andrebbe a sostituirne una vecchia; in secondo luogo perché le modifiche introdotte promuoverebbero un processo decisionale più rapido, permettendo alle forze politiche di maggioranza, qualora lo volessero, di poter modernizzare il Paese senza lasciarsi imbrigliare da inutili lungaggini.

Il primo argomento si fonda su una premessa errata, poiché né ogni novità comporta un cambiamento né ogni cambiamento rappresenta una novità. Quando nell’estate del 2015 il governo greco firmò l’accordo punitivo per il rifinanziamento del proprio debito, certamente il fatto rappresentò una novità, perché nuove erano le condizioni contenute nel patto appena siglato; tuttavia difficilmente si potrebbe sostenere in buona coscienza che l’accordo segnasse anche un cambiamento, non essendo altro che la prosecuzione della vecchia politica di austerità; dall’esempio possiamo concludere che una novità per costituire anche un cambiamento deve presentare un carattere anti-ciclico, ossia deve invertire una tendenza in atto, altrimenti siamo di fronte alla semplice persistenza dell’esistente in altre forme. Allo stesso modo il Concilio di Vienna del 1815 segnò certamente un cambiamento rispetto alla configurazione politica europea dell’immediato passato napoleonico, ma l’ordine istituito mostrava ben pochi elementi di novità e segnava più che altro la restaurazione dell’ancien regime; pertanto il cambiamento per non essere un ritorno al passato, deve segnare un progresso nella realizzazione dei principi ideali di un certo sistema di riferimento (come ad esempio la democrazia). Senza anti-ciclicità e progresso, la novità può essere conservatrice e il cambiamento può essere reazionario.

Lasciamo dunque da parte giudizi à la “almeno questa riforma è qualcosa” e concentriamoci unicamente sui suoi contenuti, per capire questo “qualcosa” che direzione dà alla vita politica del nostro Paese. Si è detto che la nuova legge costituzionale sgraverebbe il Parlamento dai rischi di congestione insiti nel bicameralismo perfetto, fra i quali di particolare rilievo sarebbero la possibilità di maggioranze diverse nei due rami del Parlamento e, per dirla con Renzi, “l’estenuante ping-pong fra Camera e Senato”. È davvero così?

Se i problemi che la riforma intende risolvere corrispondono a quelli sopraelencati, risulta chiaro che il nuovo impianto istituzionale è pensato per funzionare in modo selettivo, a favore delle formazioni politiche più tradizionali e conservatrici ed a danno di quelle più recenti e riformiste. È cioè assai probabile che solo nel caso in cui a vincere le elezioni politiche sia un partito del primo tipo, esso godrebbe dei vantaggi di un processo decisionale privo di intoppi, mentre se a vincere fosse un partito nuovo o meno allineato, le problematiche, reali o presunte, dell’attuale Costituzione risulterebbero addirittura moltiplicate. Vediamo perché.

Innanzitutto la riforma Renzi-Boschi incrementa l’eterogeneità nel metodo di selezione dei membri delle due Camere, i quali non solo verrebbero scelti con sistemi elettorali diversi (di primo grado su base nazionale per la Camera dei Deputati, di secondo grado su base regionale per il Senato), ma anche in occasioni diverse (con le politiche per la Camera e con le varie amministrative per il Senato). Dunque nulla impedisce la formazione di maggioranze difformi, anzi la nuova soluzione sembrerebbe addirittura favorirla, come ad esempio dimostrano le elezioni di medio termine americane, pensate proprio come strumento di contro-bilanciamento del potere presidenziale. Sembrerebbe, appunto.

Ma le elezioni amministrative non si differenziano dalle politiche esclusivamente per la distanza temporale in cui si svolgono, quanto piuttosto per ragioni di ordine qualitativo. Il ceto politico locale rappresenta infatti una sorta di punto di congiunzione tra la politica e l’apparato burocratico, di fatti i suoi esponenti sono chiamati “amministratori”. La funzione di questi si concretizza essenzialmente nella gestione delle risorse dello Stato e quindi nella relazione con le varie realtà locali come imprese e cooperative, organizzazioni no-profit, istituzioni culturali, ecc. Tutto ciò in sede elettorale si traduce in un discreto vantaggio per le formazioni politiche più radicate nel territorio, solitamente quelle presenti da più tempo e che hanno già governato in passato. Sia beninteso che non si sta insinuando che il ceto politico locale sia strutturalmente condannato al clientelismo più o meno criminale, non perché i nostri Consigli regionali e comunali abbiano fatto sfoggio in questi anni di prodigiose virtù morali, ma perché valutazioni di questo tipo risultano pressoché superflue. Prescindendo da quelle che comunemente si intendono come anomalie italiane, è del tutto sufficiente osservare come, a livello europeo, in occasione delle amministrative difficilmente si assiste ad imprevisti stravolgimenti dei rapporti di forza, ma al contrario rispetto alle elezioni politiche immediatamente precedenti o successive i partiti tradizionali “tengono”, anche quando sono in crisi, mentre le formazioni più recenti vengono contenute, anche quando sono in ascesa.

Proprio il caso italiano, che vede attualmente ben quindici regioni su venti controllate dal PD ed il M5S puntualmente su percentuali assai più basse rispetto a quelle ottenute nelle consultazioni nazionali, è da questo punto di vista particolarmente esemplificativo. Il nuovo Parlamento è dunque pensato per avere maggioranze tendenzialmente omogenee, qualora a governare sia il PD o forse anche una qualche riproposizione del centro-destra, e maggioranze fortemente disomogenee, se la Camera dovesse essere conquistata dalle forze cosiddette “antisistema” come il M5S o un’ipotetica nuova sinistra alternativa all’attuale.

Si dirà tuttavia che, anche nell’ultimo scenario proposto, l’azione di governo non sarebbe più di tanto rallentata, poiché la fiducia sarà prerogativa della sola Camera e il Senato disporrà di poteri limitati. La prima obiezione è palesemente falsa, in quanto il ricorso alla fiducia è stato utilizzato in questi anni come ricatto da parte del Governo verso il Parlamento ed ha quindi avuto un effetto accelerante e non frenante dell’iter legislativo. La seconda obiezione sarebbe in certa misura plausibile, se non fosse che le discipline di competenza del nuovo Senato, per quanto limitate, restano amplissime e soprattutto differenziate da quelle della Camera solamente per via contenutistica e non formale. Che quindi una legge sia di competenza di una sola camera o di entrambe, sarà nella gran parte dei casi una questione aperta, dal momento che è alquanto probabile che un disegno di legge tocchi in almeno un suo punto il rapporto tra Stato e Comuni, l’attuazione di normative e politiche dell’Unione europea o un altro campo di competenza del Senato.

È quindi lecito presumere che il Senato potrà virtualmente motivare il proprio diritto di intervento su pressoché qualsiasi legge e che sarà proprio una tale tendenza a verificarsi nel caso di maggioranze di colore diverso nei due rami del Parlamento. Anche se le continue richieste d’esame da parte del Senato dovessero essere puntualmente contrastate dalla Camera e i conseguenti conflitti di attribuzione si risolvessero per la gran parte a favore della seconda, ne risulterebbe in ogni caso un sistema istituzionale nel complesso più disfunzionale e paralizzato di quello attuale, dove, come è noto, solo il 17% delle leggi viene approvato in più di due letture.

Nel quarto capitolo del suo “Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi)” Giannuli nota come il nuovo Senato soffrirebbe di un deficit di legittimazione rispetto alla Camera, vista l’elezione indiretta dei suoi componenti e vista la sproporzione tra i 630 Deputati e gli appena 100 Senatori. Ciò dovrebbe tutelare il partito di governo da eventuali abusi ostruzionistici della camera alta e non nutriamo dubbi che con maggioranze omogenee, o addirittura nel caso remoto di un partito tradizionale in maggioranza nella sola Camera, il Senato, per questa ed altre ragioni, limiterà effettivamente il proprio intervento in materia legislativa. Diverso scenario potrebbe però profilarsi se una formazione progressista o antisistema salisse al governo trovandosi però di fronte un Senato di segno politico opposto. Diciamo questo perché in tal caso il Senato potrebbe sopperire al proprio deficit di legittimità appellandosi ad un principio diverso da quello della rappresentanza popolare. Potrebbe cioè ricorrere a quel principio di legittimazione che sta conoscendo recentemente una crescente fortuna e che da noi si è soliti indicare come “responsabilità”, “attenzione ai mercati” o “fedeltà al sogno europeo”. In presenza di un governo non allineato, l’ostruzionismo del Senato potrebbe essere dunque legittimato fattualmente da un’ ostilità diplomatico-finanziaria a livello internazionale e giuridicamente dalla funzione, riconosciutagli a più riprese dalla nuova Carta, di raccordo tra Stato ed Unione europea. In nome della “salvezza dell’Eurozona”, “del rischio default” o “della tutela di risparmi e pensioni” ogni strumento diventerebbe lecito per arginare l’irresponsabilità del governo, scoprendo magari, come d’incanto, la scarsa rappresentatività di una forza politica inattaccabile tra i banchi della Camera dei Deputati, ma minoranza nel Paese.

Questo insieme di argomenti ci porta a condividere la definizione data da Giannuli della riforma Renzi-Boschi come “costituzione di partito”, funzionale cioè per determinati scopi e soggetti politici, ma non per altri. Si illudono dunque quegli elettori che coltivano il sogno proibito della vittoria del Sì al referendum per poter poi rivolgere contro Renzi la sua creatura, immaginando un governo pentastellato o di altro colore in grado di realizzare in tempi brevi il proprio programma.

Se ritorniamo alla nostra domanda iniziale, possiamo concludere come questa riforma riduca ulteriormente le possibilità di rinnovamento del ceto politico, schermandolo rispetto al potere di condizionamento dei partiti di minoranza e della società civile, danneggi la funzionalità delle istituzioni rappresentative, aumentandone peraltro la subalternità rispetto alle organizzazioni internazionali, limiti la capacità decisionale della politica e con essa le libertà democratiche dei cittadini.

Un cambiamento quindi che, nella misura in cui può essere definito tale, presenta un carattere tra il conservatore e il reazionario.

Lucio Mamone

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di pv21 (---.---.---.72) 2 dicembre 2016 19:13

    BUBBOLANDIA >

    Proporre oggi anche solo un facsimile della scheda elettorale dei futuri Senatori ricorda lo specchietto per le allodole. Nei fatti.


    DI SICURO sappiamo che insieme all’Art.58 verrà abolito qualsiasi tipo di “elezione a suffragio universale e diretto” da parte dei cittadini e che la relativa LEGGE attuativa è ancora tutta da scrivere e varare.

    Ancora.

    L’ATTO di trascrivere o barrare un nominativo sopra una scheda elettorale di per sé non “fissa” proprio nulla riguardo al valore/significato attribuito (dalla Legge) a tale formale adempimento.

    Di più.

    Quella da promulgare sarà una Legge che dovrà sancire la nomina di Senatori “rappresentativi delle istituzioni territoriali” da cui Organi sono eletti “in conformità” (assonanza) alle scelte espresse dagli elettori per i candidati Consiglieri. Fino a quel momento varranno le “disposizioni transitorie” che affidano detta incombenza ai soli Consigli regionali.

    Tant’è che sussistono alcuni dubbi sulla “conformità” costituzionale anche della cosiddetta bozza Chiti-Fornaro.

    Non mancano neanche quelli convinti che Senatori “prescelti” dai cittadini avrebbero il diritto di votare la fiducia al Governo.


    Postilla.

    Più che l’avvio di un monocameralismo (foriero di auspicate semplicità e velocità procedurali) sembra il presupposto di futuri accesi “conflitti” politici alimentati anche dalla fin d’ora  prevedibile necessità di apportare vari “correttivi” ad un testo/sistema così mal formulato.

    Meglio diffidare di chi mistifica il valore di Parola e Merito

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