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Rai come Pubblica Amministrazione: dal tetto agli stipendi al Milleproroghe

di Vitalba Azzollini

Egregio Titolare, la gestione schizofrenica di certe vicende nazional-popolari conferma che, comunque vada, il Paese non è destinato a quelle sorti magnifiche e progressive che qualche incauto profeta aveva preconizzato

La Rai – vale a dire l’azienda che, in vista di quelle sorti gloriose, doveva essere liberata dai partiti politici, affinché la sua governance fosse finalmente improntata a logiche di efficienza, anziché di spartizione di poltrone – ne è un esempio evidente.

Nel mese di ottobre – in uno scritto da Lei cortesemente ospitato – esposi le lamentazioni dei vertici della TV di Stato per l’inserimento della stessa entro il perimetro delle pubbliche amministrazioni e per la conseguente sottoposizione a regole vincolanti su acquisti, spese e molto altro. Essi, con la solita nonchalance sulla fumosa commistione fra servizio pubblico e contenuti commerciali, affermavano che l’emittente sarebbe stata penalizzata nella concorrenza con quelle private.

Alla fine di ottobre, sembrò che anche il Parlamento riconoscesse, in via sostanziale e una volta per tutte, lo status della Rai come pubblica amministrazione. La legge di riforma dell’editoria, infatti, sancì che il trattamento economico dei suoi dipendenti, collaboratori e consulenti non potesse superare i 240.000 euro annui – come per ogni altra P.A. – e che, ai fini del rispetto di tale limite, non valessero le esclusioni riferite alle società che emettono strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati: la precisazione era dovuta al fatto che la Rai aveva in precedenza evitato il limite suddetto – stabilito nel 2012 dal governo Monti – grazie all’emissione, con un tempismo perfetto, di obbligazioni quotate.

La norma da ultimo emanata non è un fulgido esempio di chiarezza, essendo incerto se essa ricomprenda anche i contratti di collaborazione e consulenza artistica e, nel caso, quale sia la sorte di quelli già operanti. Ciò nonostante, la Rai si adeguò subito al nuovo corso moralizzatore, ponendo il limite suddetto alle retribuzioni delle categorie per le quali non vi era alcun dubbio di inclusione. Inoltre, i vertici dell’emittente chiesero “un’interpretazione puntuale del testo di legge all’azionista Ministero dell’Economia e finanze e al Ministero dello Sviluppo economico” per capire se la misura si applicasse anche gli artisti: evidentemente, non li sfiorò il sospetto che un organo amministrativo, qual è un Ministero, non è deputato a fornire l’interpretazione autentica della volontà del legislatore. Dettagli giuridici che non fanno audience, direbbero gli esperti, quindi andiamo oltre.

Riassumendo, a fine ottobre, per lo spazio di un attimo fuggente, sembrò che finalmente trionfasse la coerenza e la Rai fosse parificata a una pubblica amministrazione a ogni effetto. Ma siamo in Italia, Paese ove la coerenza non è un diamante, cioè per sempre. A dicembre, infatti, le menzionate lagnanze dei vertici della Rai per la qualificazione dell’azienda come P.A. trovarono ascolto e i loro desiderata furono esauditi mediante uno strumento a dir poco perfetto: il decreto c.d. Milleproroghe (approvato in via definitiva il 23 febbraio scorso). Così, come ipotizzato nel post da Lei ospitato, si trovò l’escamotage giusto: vennero differiti di un anno gli effetti nei confronti della Rai di norme vigenti per le altre pubbliche amministrazioni.

Una procrastinazione di soli 365 giorni non è certo un dramma. Ma in Italia non vi è nulla di così duraturo come il transitorio: per restare in tema, basti pensare che dal 2010 con il decreto Milleproroghe (e l’ultimo non fa eccezione) viene spostata di anno in anno l’eliminazione del divieto di proprietà incrociata tra chi ha più di una rete televisiva nazionale e quotidiani nazionali. Tornando al punto ed evitando inutili eufemismi, il legislatore ha rimandato a una scadenza indefinitamente determinata – mi consenta quest’ossimoro – l’applicazione alla Rai di norme valevoli per le altre P.A.: in fondo, c’è una certa coerenza italica anche in questo.

E invece no, ci mancherebbe altro! Qualche giorno fa la Rai ha sparigliato, come suole dirsi. Il suo Consiglio di Amministrazione – in un sussulto di astratta propensione alla morigeratezza o, più verosimilmente, nel concreto timore di responsabilità per danno erariale – ha deliberato che dal prossimo aprile il predetto limite di 240.000 euro sarà esteso anche ai compensi degli artisti, a meno che non intervengano pareri discordanti da parte dei ministeri competenti (sempre con buona pace dei principi del diritto).

La decisione si presta a letture contrastanti. Per un verso – potrebbe osservarsi – proprio là dove la Rai opera in concorrenza verranno decurtati i compensi ai conduttori migliori di programmi che hanno ascolti eccellenti e, conseguentemente, consentono all’azienda di raccogliere introiti pubblicitari rilevanti. Per altro verso – potrebbe replicarsi – con il limite suddetto, il canone dei contribuenti cesserà di sovvenzionare i mega-stipendi di chi si esibisce in uno spettacolo di arte varia (citare Paolo Conte è tentazione troppo forte) che con il servizio pubblico non c’entra assolutamente niente. Il circolo è vizioso: il merito si misura in termini di corrispettivo adeguato, tuttavia coloro i quali lavorano nella TV di Stato devono adeguarsi ai limiti posti per chi svolge attività finanziate dalla cittadinanza.

Non se ne esce, anzi, se ne potrebbe uscire – ad esempio – separando il servizio pubblico, pagato con il canone televisivo, dai contenuti commerciali, sostenuti dalla raccolta pubblicitaria, per garantire trasparenza e concorrenza. Ma è una soluzione troppo coerente e la coerenza, come già detto, non appartiene a questo Paese. Eppure, di coerenza la Rai sembra averne quanto basta nella scelta di tempi convenienti. Attenzione alle date: la norma che imponeva il tetto ai compensi è di fine ottobre; la decisione di ridurli è di fine febbraio ma con decorrenza da aprile, e irretroattivamente; il Festival di Sanremo, come ogni anno, si è svolto intorno alla metà del mese di febbraio.

Sorge un sospetto: i vertici Rai avranno forse atteso la fine della manifestazione canora – e la corresponsione dei lauti compensi che essa comporta – per conformarsi al disposto di una legge entrata in vigore quattro mesi prima, e senza preoccuparsi del periodo precedente (né, ad esempio, del contenzioso scaturente dall’eventuale rideterminazione di corrispettivi già stabiliti in via contrattuale)? Quien sabe. Certo è che in Italia nulla è così incerto come la certezza del diritto, dunque chiunque può sguazzarci dentro, specie se convinto che qualcuno interverrà senz’altro per tenerlo indenne da ogni conseguenza.

La vicenda della Rai sta assumendo i contorni di una telenovela sudamericana, per restare in argomento: del resto, in “questo paese sudamericano fuori posto sulle cartine” – come Lei l’ha efficacemente definito – ci si poteva forse aspettare qualcos’altro?

Questo articolo è stato pubblicato qui

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