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Raccontare il carcere: il primo arresto | Nato Colpevole, di Carmelo Musumeci

L'Unidicesimo capitolo del Romanzo "Nato Colpevole": il primo arresto

Qui la prefazione al testo. 

 

Quella mattina di lunedì quando mi svegliai ancora non sapevo che in quella settimana avrei passato i giorni più brutti della mia vita.

Quel giorno mi legarono per sette lunghi giorni nel letto di contenzione.

Quella settimana non riuscii mai a sognare.

Neppure i sogni vollero essere legati in quel letto.

Non ebbi più neppure i miei sogni a scaldarmi il cuore.

Rimasi per molti giorni solo in balia del nulla.

In quei sette giorni mi sentii così solo e infelice come non mi capitò mai più di esserlo.

Iniziò tutto all’ora di pranzo per un piatto di patate.

Quel giorno il cibo era più scarso degli altri giorni.

Alcuni ragazzi incominciarono a battere i cancelli e a urlare:

-Abbiamo fame … vogliamo mangiare … fame … fame … fame ...

Per solidarietà anche i miei due compagni di cella, Nunzio e Daniele, iniziarono la battitura al cancello.

Si scatenò l’inferno!

I detenuti maggiorenni ci vennero dietro a battere e a urlare e tutti gli altri tre piani parteciparono alla protesta.

Come accade in questi casi, quelli dei piani di sopra facevano casino senza sapere il motivo per cui era iniziata la protesta.

Però lo sapevano i Senzanima.

Arrivò un esercito di guardie insieme al brigadiere Lucifero.

Era uno dei più malvagi brigadieri dell’Assassino dei Sogni.

Era il responsabile dei detenuti minorenni.

Fu subito davanti alla mia cella.

Si affacciò dallo spioncino con la sua faccia di cazzo.

Aveva i baffi da sadico, gli occhi da vipera, azzurri e freddi, una bocca da checca e capelli neri unti di brillantina.

Mise dentro il suo muso cattivo e ci urlò:

-Che cazzo avete da sbattere … smettetela subito di fare casino … se no vi porto alle celle di punizione.

Non mi piacque il tono né la minaccia che fece.

Presi in mano il piatto di patate con la porzione che il porta vitto ci aveva lasciato e mi rivolsi a quel figlio di puttana:

-Brigadiere vede quante patate ci hanno lasciato per tre persone?

-Le vedo e allora?

-Mangiatele tu … cane bastardo.

E gliele sbattei in faccia insieme al piatto.

Il brigadiere non se l’aspettava.

Non se l’aspettavano le guardie.

Non se l’aspettavano neppure i miei due compagni di cella.

A dire la verità, non me l’aspettavo neppure io.

All’improvviso calò il silenzio, quelli del piano terra, alcuni detenuti avevano visto la scena, smisero di sbattere.

Smisero pure quelli dei piani di sopra perché avevano smesso quelli di sotto.

Il silenzio durò qualche secondo.

Poi si sentì l’urlo disumano del brigadiere Lucifero:

-Prendete quel bastardo e portatelo alle celle.

I Senzanima aprirono la cella.

Alcune guardie immobilizzarono Daniele e Nunzio che provarono a mettersi davanti a me per impedir loro di afferrarmi.

Altre guardie mi presero di peso e mi portarono fuori dalla cella.

Si scatenò un putiferio.

Tutti i detenuti dei piani iniziarono a battere e a urlare invettive contro le guardie.

Io non feci in tempo a mettere i piedi per terra che mi trovai in fondo al corridoio.

Poi nel gabbione all’entrata delle celle di punizione.

Mi scaraventarono lì dentro.

Sapevo cosa mi aspettava.

Non gli diedi la soddisfazione di fare decidere loro come e quanto picchiarmi.

Questo lo decisi io.

Affrontai i Senzanima con incoscienza.

-Figli di puttana non mi fate paura!

E li guardai in faccia sicuro di me.

Poi aggiunsi:

-Se mi toccate con un dito vi aspetto fuori uno per uno e vi sparo un colpo in una gamba.

Non mi toccarono con un dito, ma con pedate calci e pugni.

Il primo pugno mi colpì in bocca.

Poi mi saltarono addosso insieme e mi arrivò una grandine di pugni, calci e scarpate.

Caddi per terra.

Mi picchiarono come belve.

All’inizio per rabbia, poi per divertimento.

Giurai a me stesso che una volta fuori mi sarei vendicato.

Lo giurai sui miei figli che ancora non avevo.

Provai a rialzarmi un paio di volte.

Quello che mi faceva più male era l’umiliazione di non riuscire a prendere le botte stando in piedi.

Ogni volta che riuscivo ad alzarmi da terra i Senzanima riuscivano a picchiarmi meglio e mi sbattevano di nuovo per terra a forza di calci e pugni.

A un tratto decisi che forse era meglio essere picchiato stando a terra.

Mi misi a testuggine con la testa appoggiata ai ginocchi, con le gambe e la braccia piegate per proteggermi il viso.

Mi accucciai in un angolo del pavimento.

Mentre mi picchiavano, riuscivo a urlare:

-Vigliacchi, schifosi, bastardi. Figli di puttana.

Un Senzanima riuscì a piantarmi un calcio in bocca.

Ebbi una smoria di dolore più forte delle altre.

Sputai sangue dalla bocca.

Per qualche secondo smisi di gridare.

Il tempo di riprendere fiato.

Se avessi finito d’insultarli avrebbero smesso anche di picchiarmi, ma era più forte di me.

Iniziai di nuovo a insultarli.

La rabbia mi dava la forza di gridare:

-Rotti in culo, froci, quando esco vi ammazzo … vigliacchi.

Mi sbatterono come uno straccio da una parte all’altra della stanza.

Dentro la mia testa vedevo le stelle coperte a tratti dal sangue che mi usciva dal naso.

Ad un tratto sentii la voce del brigadiere Lucifero:

-Portatelo alla balilla … portate quel piccolo bastardo alla balilla … e legatelo … se no l’ammazzo con le mie mani.

Riuscii a vedere in faccia di quel figlio di puttana il solito ghigno odioso che lo distingueva dagli altri Senzanima.

Poi le guardie mi ripresero di peso e iniziarono a trascinarmi nella cella, dove c’era il letto di contenzione.

Ne avevo sentito parlare.

Ebbi paura.

Non ero mai stato legato prima.

Appena vidi il lettino di ferro con le spalliere tutto intorno ebbi paura della mia paura.

Intanto sentivo dolore in tutte le parti del corpo.

Ero sfinito.

Ma il mio orgoglio cacciò via la paura e iniziai a gridare e a offendere i Senzanima più di prima, rischiando di farli incazzare ancora di più.

-Bastardi … Quando esco vi aspetto fuori e vi sparo in testa … ma prima mi scopo le vostre mogli … figli di puttana.

Per non farmi legare provai a fare il pazzo e lo feci così bene che ho sempre avuto il dubbio di esserlo un po’ per davvero.

Il mio cuore urlava di dolore, ma io ridevo e continuavo a dire alle guardie: “Figli di puttana, quando esco vi ammazzo uno per uno”.

Fu inutile.

Mi afferrarono e mi misero nel letto di contenzione.

Nonostante cercassi di dimenarmi come una sardina, riuscirono con facilità a legarmi i polsi e le caviglie.

Mi crollò subito il mondo addosso.

Provai a liberarmi, ma agitarmi non serviva a nulla perché le cinghie di cuoio ai polsi e alle caviglie si stringevano ancora di più.

Ero in balia dell’Assassino dei Sogni.

Ero sconfitto e umiliato.

Le guardie chiusero la cella e se ne andarono.

Ero sconfortato.

Odiavo essere legato in quel modo.

Mi sentivo terribilmente sconfitto.

Poi mi consolai che non ero proprio del tutto sconfitto, avevo ancora il mio orgoglio.

Provai a difendermi con quello.

Non potevo muovermi, non potevo difendermi, ma qualcosa potevo ancora fare.

Avevo ancora la lingua libera e iniziai a difendermi e a reagire con l’aiuto delle parolacce e le invettive.

-Figli di puttana quando esco vi ammazzo come cani … vi aspetto fuori … brigadiere Lucifero sei un cornuto … tua moglie scopa con tutti i detenuti …

Non smisi mai un secondo di urlare.

I Senzanima nel corridoio mi sentivano e gli giravano le palle che ascoltavano anche gli altri detenuti che erano in punizione.

Dopo una mezzoretta sentii di nuovo il blindato aprirsi.

Era il brigadiere Lucifero con altri due Senzanima.

Dietro di loro c’era un uomo con il camice bianco con una puntura in mano.

Era quel figlio di puttana del dottore.

Il brigadiere Lucifero mi si avvicinò, dalla rabbia aveva la bava alla bocca.

-Smettila bastardo di urlare e di offendere.

Gli sputai in faccia.

Impallidì e mi lanciò un’occhiata assassina.

Paonazzo di rabbia mi diede una grandinata di schiaffi sul viso.

Poi si rivolse al dottore:

-Gli faccia questa cazzo di puntura da cavallo a questo bastardo figlio di puttana e lo faccia addormentare.

Il dottore si avvicinò e mi fece un’iniezione di non so ancora adesso che cosa.

Mi venne subito sonno e feci fatica a tenere gli occhi aperti.

Incominciai a non sentire più i passi nel corridoio delle guardie.

Non sentii più nessun rumore.

Sentivo solo il rumore del mio respiro.

Provai ancora a gridare, ma facevo fatica persino ad aprire la bocca.

Non sentii più le mie urla né il mio cuore battere, sentii solo il rumore del mio respiro e desiderai non sentirlo più.

E ci riuscii addormentandomi.

Mi svegliai diverse volte senza sapere se fosse giorno o notte e tutte le volte mi addormentavo di nuovo.

Non so quante punture in quei giorni mi fecero, ma vidi diverse volte il dottore che entrava e usciva dalla cella.

Vidi diverse volte davanti alla guardia quella checca di Fernando che m’imboccava per farmi mangiare.

I bisogni li facevo direttamente legato perché nel tavolaccio c’era un buco nel mezzo e sotto un buiolo.

Non ero mai stato così umiliato.

Eppure cercavo di reagire in tutti i modi e ogni volta che mi passava l’effetto delle punture, gridavo forte la mia impotenza.

Gridavo forte, sempre più forte.

Le guardie nel corridoio sentivano le mie urla e le mie parolacce e per farmi smettere davano pugni e calci nel blindato.

E io urlavo sempre più forte.

Poi quando non ce la facevo più e mi mancava la voce, allora al posto mio iniziava a gridare il mio cuore, per farsi sentire dal mio corpo.

Iniziava a battere dentro di me, forte come un tamburo.

Poi si stancava anche lui e non lo sentivo più battere.

Non sentivo più nulla.

Sentivo solo il silenzio dell’Assassino dei Sogni.

C’erano dei momenti che le lacrime m’inumidivano gli occhi.

Riuscii per alcuni giorni a cacciarle indietro.

Le versavo dentro di me per far piangere il mio cuore al posto mio.

Ormai io ero cattivo e i cattivi non piangono.

Un giorno non ce la feci più a trattenere le lacrime e scoprii che anche i cattivi piangono.

E fu un bene perché dopo mi sentii meglio.

Mi vennero giù a grosse gocce e fu bello vederle scivolare sul viso senza poterle spostare o asciugare.

Piansi come non avevo mai pianto da bambino.

Piansi come quando non ero ancora cattivo.

Negli sprazzi di lucidità mi sentivo solo come non lo ero mai stato nella vita.

Ma quella volta mi sentivo ancora più solo perché non avevo più neppure me stesso che mi proteggeva.

Ero andato in depressione.

Non furono le botte e il dolore ma l’umiliazione di essere legato, di essere imboccato e di fare i bisogni in quel modo.

In quei giorni il mondo mi appariva tutto in quella cella, mi sembrava che avevo sempre vissuto in quel modo e che avrei vissuto per sempre così.

Il momento più brutto era quando calava la sera e al buio cercavo di scrutare le ombre della cella.

La finestra era alle mie spalle e da quella posizione non riuscivo a vedere il cielo.

Mi mancavano le stelle e la luna, mi mancavano terribilmente i miei sogni.

Mi sembrava che dentro di me non c’era più nulla di vivo.

Anche I pensieri mi giravano a vuoto.

Una sera il mio cuore era così pieno di tristezza che non lo sopportai più e decisi di buttarlo via.

Pensai che ora che ero rimasto senza sogni, il cuore non mi sarebbe più servito perché i cattivi possono vivere anche senza cuore.

Con la mente presi il mio cuore dal petto e lo gettai fuori dalle sbarre della finestra della mia cella.

Dopo pochi minuti, non so come fece, il mio cuore ritornò dentro la mia cella e di nuovo dentro al mio petto per farmi stare male.

Pensai che anche lui fosse un figlio di puttana.

Incominciai a odiare anche il mio cuore.

Stavo diventando veramente cattivo e questo non era un problema.

Era quello che volevo da una vita per soffrire di meno.

Il problema era che stavo diventando anche pazzo e questo non mi andava.

Per tentare di reagire provai a parlare con me stesso, a volte in silenzio e a volte a voce alta.

Non potevo più chiedere aiuto ai miei sogni, né al mio cuore e chiesi aiuto alla mia fantasia, anche lei mi aveva sempre protetto.

E incominciai a immaginare la donna della mia vita che un giorno avrei incontrato.

Era bellissima.

Assomigliava a una Dea.

Aveva i capelli neri.

Aveva gli occhi castani.

Aveva le labbra rosse.

Decisi di amarla per sempre.

Il mio cuore per paura di perderla la nascose nella mia mente.

E dal quel giorno iniziai a sentirmi felice di essere infelice perché ero sicuro che un giorno l’avrei trovata.

L’avrei incontrata.

Fernando veniva tre volte al giorno per imboccarmi, pulire e portare via il buiolo e tutte le volte c’era la guardia.

Quel giorno la guardia non c’era.

Ero nel dormiveglia dei sonniferi che mi davano.

Ad un tratto guardai sbalordito che quella schifosa checca di Fernando mi stava toccando l’uccello.

Non credevo a quello che stava accadendo.

Rimasi incredulo qualche frazione di secondo.

Quella fu la cosa peggiore di quello che mi poteva capitare.

Non potevo chiamare la guardia perché solo gli infami si fanno proteggere e chiedono aiuto alle guardie.

Cercai di convincerlo a lasciare stare in pace il mio uccello con le cattive:

-Brutta checca schifosa che stai facendo?

Mi sorrise con cattiveria.

-Non lo vedi… ti sto toccando l’uccello.

Lo guardai storto.

-Smetti subito! Ti spacco il culo.

Mi rivolse uno sguardo ironico.

-Si! È quello che voglio.

Bastardo! Faceva anche lo spiritoso.

-Volevo dire che ti spacco la faccia.

Mi guardò in malo modo.

-Cattivo! Come hai fatto l’altra volta?

-Si!

Si passò la lingua fra le labbra.

-Questa volta sei legato e non lo puoi fare.

Mi assalì la collera, ma decisi che era più utile non farmi vedere arrabbiato.

Provai a convincerlo con le buone:

-Lascia stare il mio uccello… noi due possiamo diventare amici e dimenticarci del passato.

Gli s’illuminò il viso.

-Si! Anch’io voglio che noi due diventiamo amici… e possiamo iniziare da adesso.

Strizzò l’occhio.

-Non mi hai capito… non voglio dire in quel senso… non toccarmi l’uccello.

Quella checca schifosa mi guardò fisso negli occhi.

Sogghignò con cattiveria.

-Perché? A lui piace… guarda… sta diventando duro.

Con una lentezza inesorabile quella testa di cazzo del mio uccello stava diventando duro.

Non lo potevo permettere!

Per un attimo rifiutai di credere a quello che stavo vedendo.

Ma non sapevo cosa fare e come difendere il mio uccello.

Poi mi venne un’idea.

Incominciai a concentrarmi su tutte le cose brutte che mi erano capitate nella vita.

Pensai alla tristezza che avevo provato quando, tanti anni prima, avevo visto partire Angela… e l’uccello iniziò a ritornare moscio.

Fernando rimase deluso, ma io fui molto felice di essere più forte del mio uccello.

Gli gridai soddisfatto:

-Brutta checca schifosa lascia stare tranquillo il mio uccello che fai schifo anche a lui.

Fernando balbettò:

-No! Non è vero: …lui mi vuole… se tu che non mi vuoi… cattivo…cattivo…cattivo.

Scoppiò a piangere e se ne andò.

Tirai un sospiro di sollievo.

Mi calmai.

Quella sera pensai che forse era meglio smettere di urlare.

Se continuavo a urlare le guardie mi avrebbero tenuto legato ancora molto tempo.

Si! Decisi che era meglio che mi liberassi dalla malinconia, dalla tristezza e dalla pazzia che mi aveva preso in quei giorni.

Mi conveniva non fare più il pazzo.

Sì, era meglio ritornare a essere solo cattivo.

Avevo sentito che nei manicomi criminali avevano tenuto detenuti legati per anni.

Dovevo fare tutto quello che potevo per farmi slegare presto.

Non dovevo piegarmi, dovevo solo riuscire a farmi slegare.

E per farlo bastava smettessi di fare il pazzo.

Se mi faceva stare bene, potevo continuare a fare il matto solo nella mia mente.

Quella notte, per l’ultima volta da quando mi avevano legato, piansi di nascosto mentre dormivo per non farmi vedere dall’Assassino dei Sogni.

Me ne accorsi al mattino perché non avevo più lacrime e il telo era tutto bagnato dalle mie lacrime.

Piangere mi fece bene perché mi aiutò a smettere di urlare.

A poco a poco iniziai a riprendermi e a ritrovare me stesso.

Il mio cuore uscì dall’ombra.

Al settimo giorno i Senzanima mi slegarono.

Mi diedero altri dieci giorni di isolamento.

Dopo quello che avevo passato legato nel letto di contenzione, quella punizione non mi pesò più di tanto.

Mi cambiarono di cella.

Anche quella nuova era lercia, maleodorante e con i muri scrostati, ma l’importante era che in quella cella non c’era il letto di contenzione.

Giurai a me stesso che non mi sarei più fatto legare, a costo di uccidermi.

Mi ripresi presto.

Ritornarono i miei sogni.

Nella vita non avevo mai avuto bisogno di nulla e di nessuno perché avevo sempre avuto i miei sogni.

Iniziai di nuovo ad amare il mio cuore.

Ritrovai la mia anima, i miei sentimenti e i miei pensieri.

E la sera ripresi a guardare le stelle e la luna.

Mi sentii di nuovo me stesso perché avevo fatto pace con il mio cuore.

Però Angela non mi bastava più.

L’avevo lasciata che era una bambina.

Non riuscivo a i immaginarla come una donna.

E i miei sogni ora avevano bisogno di una donna.

Sognai di nuovo la donna che avrei incontrato molti anni dopo e mi piovve l’amore.

Mi bagnai del suo amore.

M’inzuppai del suo amore fino alle ossa.

Non sapevo ancora chi era e cosa pensava.

Ora era importante sapere che sarebbe stata la madre dei miei figli e la compagna di tutta la mia vita.

Fu ancora prima d’incontrarla che giurai che avrei diviso Il cuore con lei.

Nell’immaginazione e nella fantasia, trascorsi con lei quei giorni d’isolamento.

Mi ubriacai d’amore per una donna che era nata dai miei sogni.

L’amai con il cuore perché la mia testa mi diceva che non potevo innamorarmi di una donna che non conoscevo e che forse non esisteva.

Pensai che l’uomo riesce a sognare solo quello che nell’universo esiste, quindi se la sognavo, voleva dire che da qualche parte esisteva.

E se questa donna esisteva, prima o dopo l’avrei trovata, o forse lei avrebbe trovato me.

Intanto la incontrai nei miei sogni e una parte del mio cuore iniziò ad amare una parte del suo.

Incredibilmente quei giorni furono giorni sereni.

Dopo che mi avevano slegato feci pace con Fernando.

Fu lui che fece il primo passo.

Mentre puliva il corridoio, si era affacciato dallo spioncino con lo sguardo da cane bastonato e mi aveva detto:

-Angelo, sei arrabbiato con me?

Rimasi perplesso qualche secondo.

Poi gli risposi:

-Si!

Mi guardò con occhi pietosi.

-Io no!

Mi allungò la mano.

Mi sorrise.

E per la prima volta gli sorrisi anch’io.

Gliela strinsi.

Sapevo che non c’era da fidarsi perché oltre che checca era anche un infame, ma forse la colpa era anche che nessuno gli aveva mai dato fiducia.

Gli promisi che nessuno dei miei amici l’avrebbe più picchiato.

Fernando mi procurò sigarette, carta e penna.

Tramite lui mandai a dire a Nunzio e Daniele che stavo bene.

Loro mi mandarono un biglietto scritto, dove mi salutavano con affetto e mi dicevano che mi aspettavano.

Approfittai di quei giorni d’isolamento per riordinare le idee.

Mi venne a trovare l’avvocato e quando mi vide conciato nel viso in quella maniera, voleva denunciare i Senzanima.

Gli dissi di lasciare stare.

Ero risoluto che quando fossi stato fuori di lì mi sarei vendicato con qualcuno di quei bastardi, alla mia maniera.

Ora mi sentivo di nuovo forte e cattivo come prima.

Dovevo pensare solo a uscire e dopo mi sarei vendicato.

Avevo già un piano.

Quel giorno decisi con più determinazione che per soffrire di meno dovevo diventare ancora più cattivo.

E ci sarei riuscito.

 

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