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Quota 100, sperimentazione al termine: e dopo?

C’è un tema che scorre, neppure troppo sottotraccia, nel desolante dibattito politico di questo periodo: che fare delle pensioni, quando la cosiddetta “sperimentazione” di Quota 100 giungerà al termine, il prossimo anno?

 Tra le tante emergenze fatte in casa, con cura artigianale, l’Italia ha anche questa, e più in generale ha lo stato allucinatorio che porta a credere di poter innalzare le pensioni quando si è nel mezzo di una delle peggiori crisi demografiche da tempo immemore ed il paese non cresce.

Mind the (big) gap“, attenzione allo scalone che scatterebbe dal primo gennaio 2022 per tutti i pensionandi, è lo slogan. Perché le cose stanno in questi termini: dopo una crisi economica che mai si è risolta e che ha messo in drammatica luce decenni di errori nel modello di crescita del paese e la sua ormai crescente inadeguatezza all’habitat economico globale, da qualche tempo si è deciso che serve una poderosa riscossa, ed i pensionati (di oggi ma soprattutto di domani) guidano la sollevazione, non foss’altro che per motivi di consistenza elettorale.

La parola d’ordine è “flessibilità”; che, come sempre in questi casi, nasconde diabolici trappoloni. Da più parti, forse per sciatteria e deficit analitico, si sentono commenti del tipo: “col metodo contributivo si potrà uscire quando si vuole, entro dati limiti anagrafici ma più laschi del precedente regime. In caso, si potrà estendere l’Opzione donna a tutti”.

Tutto molto bello, sin quando non si fanno due conti e si scopre che in questo modo avremmo assegni pensionistici letteralmente da fame, a meno di rinviare di molto l’età del pensionamento, e quindi tornare al via. In questa fallacia capita che cadano anche economisti, ad esempio. Equilibrio attuariale sì, ma con Nesquik. Il passo successivo a questa epifania è quello che potremmo definire “alla Landini”: la flessibilità deve implicare robustissime integrazioni pubbliche agli assegni pensionistici. Come dice il segretario generale della Cgil,

I soldi si possono andare a prendere altrove, e in tanti sistemi pensionistici europei anche la fiscalità generale contribuisce alla spesa previdenziale. Il 27 gennaio inizierà una trattativa su una riforma complessiva; ci sono tutte le condizioni per fare un buon lavoro.

Mitica la frase “i soldi si possono andare a prendere altrove”, antico refrain della sinistra-sinistra. Poi c’è la cornucopia della fiscalità generale, ormai un evergreen. Come saprete, il tema è questo: se separassimo previdenza e assistenza, scopriremmo che la prima è in equilibrio, quindi va lasciata in pace anche se siamo il paese più vecchio del mondo ed abbiamo smesso di crescere da un eone.

Tutto molto bello, se non fosse che l’assistenza è di fatto inseparabile dalla previdenza: l’una alimenta l’altra. Pensate alle contribuzioni figurative, e più in generale agli interventi a metà strada tra il sociale ed il previdenziale, che integrano in vario grado le pensioni. Davvero pensate che le due dimensioni siano chirurgicamente separabili? Questo è un espediente dialettico, null’altro. Altro esempio: la quota retributiva della pensione va ad estinguersi? Embè, che problema c’è? Fiscalità generale, e la riportiamo in vita!

Pensate, ancora, alla cosiddetta “pensione di garanzia” per i giovani: contributi figurativi per avere assegni pensionistici non da fame, nei limiti del possibile. Tutto buono e giusto, ma quando quegli assegni integrati verranno posti in pagamento, si scoprirà che c’è una voragine nella previdenza. Allora, si alzerà il Landini di turno e dirà: “separare assistenza e previdenza, presto!”. La vedete, la fallacia?

Ripetete con me: assistenza uguale fiscalità generale. Fiscalità generale uguale tasse. Che saranno anche bellissime, ma resta il problema che un sistema tributario deve reggersi su un sistema economico che produca l’odiata “ricchezza”; altrimenti finiremo, tra non molto, ad inventarci basi imponibili, magari centrandole sui ricavi e non sugli utili. E comunque, qualcuno avverta Landini che non è che in Italia la fiscalità generale non contribuisca pesantemente alla previdenza, già oggi.

La triste storia è che, con un paese che non cresce, le pensioni saranno sempre più esigue, moltiplicando il numero di poveri. I disavanzi previdenziali diverranno sempre più ampi, costringendo a strette fiscali e contributive e sfocando sempre più il fallace confine tra previdenza ed assistenza.

Se poi ci si mette in mente che tutto il paese è vittima di lavori usuranti e si considera che la popolazione indigena è destinata a calare in modo drammatico nei prossimi lustri, sia per denatalità che per emigrazione netta alla ricerca di opportunità, ecco che lo scontato epilogo non può che essere quello di un assalto all’arma bianca ai patrimoni oltre che ai pochi rimasti a produrre reddito, nel paese. Oppure alla stampa di foglietti di carta colorata da lanciare a gente che nel frattempo avrà iniziato a tesaurizzarsi gli euro, in casa propria.

Questo autoavvitamento demografico e di mancata crescita produce quindi fatalmente richieste di espropri fiscali o levate d’ingegno come il dirottamento dei contributi del secondo pilastro previdenziale sul sistema a ripartizione, in un quadro di vera e propria autofagia del paese.

In tutto ciò, io sto rileggendo da ieri le considerazioni di Carlo Messina, Ceo di Intesa Sanpaolo, formulate ai margini dei lavori del World Economic Forum di Davos:

Sono convinto che il paese continuerà a crescere e fare performance sicuramente molto migliori rispetto allo spread a cui ci valutano a livello internazionale […] sono convinto che l’Italia ha un’inerzia nell’andamento delle principali aziende, dell’economia reale che è difficile che non possa crescere […] la forza relativa delle aziende e delle famiglie italiane è campione rispetto al resto dell’Europa. […] Poi c’è il problema del debito pubblico ed è indubbiamente un aspetto che prima o poi andrà affrontato, ma da qua a dire che l’Italia è un paese debole ce ne vuole.

Continuerà a crescere”. Evidentemente mi sfugge qualcosa. Affascinante anche il concetto di “inerzia” che praticamente “condanna” a crescere. Probabilmente però si tratta di un’inerzia così forte che sin qui ci ha impedito di crescere. E quanto al debito pubblico che “prima o poi andrà affrontato”, ecco, direi che di questo passo accadrà più prima che poi. Nel frattempo, godiamoci la fiscalità generale in fondo all’arcobaleno, e non preoccupiamoci. O meglio, stiamo sereni, che è più adatto alla situazione.

Foto di coombesy da Pixabay 

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