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Quello che non vi dicono sul discorso di Obama

Spesso sottolineo le cantonate e le deformazioni ideologiche della nostra stampa mainstream, ma quelle di stamattina sul discorso di Obama di ieri le superano se non tutte, parecchie. Un discorso ridotto ad una specie di reprimenda nei confronti di Israele che si ostinerebbe a non accettare i confini del 1967. Tutti i titoli, e la gran parte degli articoli, con la sola eccezione di Molinari su La Stampa (anche lui però sfregiato dal titolista), lanciano il medesimo messaggio: Obama che rompe il tabù dei confini del '67, e tutti a celebrare il presidente di sinistra che finalmente gliene dice quattro a Israele. Innanzitutto, questa lettura ignora il cuore del discorso: la svolta di politica estera annunciata da Obama ieri non riguarda il negoziato tra israeliani e palestinesi, che anzi ha riconosciuto essere in uno stallo e dipendere dalle due parti, ma il ritorno all'agenda pro democracy da parte del presidente, che l'aveva accantonata appena entrato alla Casa Bianca, nel tentativo di sintonizzarsi con le "piazze arabe", quelle vere, che si ribellano ai loro tiranni, e non quelle immaginate nelle stanze del Dipartimento di Stato o in qualche think tank "realista".

Inoltre, ciò che riportano i nostri giornali è anche sbagliato nel merito. O meglio, si limitano a enfatizzare i risvolti politici, ma non approfondiscono quel tanto che sarebbe necessario per capire se davvero, come ci dicono, ci troviamo dinanzi ad una svolta americana sui fondamenti dei negoziati tra israeliani e palestinesi. La posizione di Obama sui confini del '67 rappresenta davvero una svolta rispetto ai suoi predecessori su questo specifico tema? "Tecnicamente" la risposta non può che essere un "no". Allora perché il premier israeliano Netanyahu se la sarebbe presa così tanto? E' ovvio, perché politicamente e mediaticamente l'enfasi è caduta su quella parte del discorso di Obama dove si citano testualmente i confini del '67, offrendo un assist retorico al presidente palestinese Abbas e suonando come uno schiaffo a lui, in visita a Washington. Probabilmente, una furbata del presidente Usa per accattivarsi l'opinione pubblica araba, nel momento in cui pronuncia un delicato discorso, rivolto anche ad essa, sulla necessità di una coraggiosa transizione democratica in Medio Oriente.

Ma dal punto di vista diplomatico, la posizione Usa non cambia di una virgola. Questo il passaggio letterale:

«We believe the borders of Israel and Palestine should be based on the 1967 lines with mutually agreed swaps».

Il diavolo si nasconde nei dettagli, cioè in quei «mutually agreed swaps» di territorio che non sono altro, come ricostruisce in modo egregio Jackson Diehl sul Washington Post, che tutti gli aggiustamenti territoriali che si sono sempre ipotizzati, durante i negoziati guidati dagli Usa (da Clinton a Bush jr), sulla base dei confini del '67. Insomma: i confini del '67 sono stati sempre per gli Stati Uniti la base di partenza dei negoziati tra israeliani e palestinesi. Con gli opportuni accorgimenti condivisi tra le parti, tuttavia, perché quando Netanyahu fa notare che con i vecchi confini il governo israeliano non sarebbe in grado di garantire la sicurezza dei propri cittadini, dice qualcosa di ovvio, riferendosi agli insediamenti israeliani. Al contrario dei profughi palestinesi, infatti, la cui vita si è fermata al '49 perché strumentalizzati dai gruppi terroristici o dai regimi arabi, per i coloni israeliani la vita è andata avanti e non si può disconoscere il loro diritto alla sicurezza.

Tanto che anche gli accordi che si avvicinarono di più alla pace, quelli di Camp David nel 2000, prevedevano come base i confini del 1967, ma anche un sostanzioso scambio di terra: il 5% del West Bank agli israeliani, per includere la gran parte degli insediamenti ebraici; e il 3,5% di territorio israeliano ai palestinesi, più un corridodio per la Striscia di Gaza, come compensazione. Se Arafat avesse accettato, uno Stato palestinese sarebbe già oggi realtà. Ed è su queste stesse basi che proseguì, invano, anche l'amministrazione Bush. E' implicito, dunque, nella formula degli «swaps» usata da Obama, che non si chiede a Israele di ritornare ai vecchi confini sic et simpliciter, ma di accettarli come base di partenza, come gli Usa hanno sempre chiesto.


Oscurata sui nostri giornali la parte più dirompente del discorso di Obama. Qui la notizia è che Obama torna - certo con la sua sensibilità di democratico - alla Freedom Agenda di George W. Bush, la cui eco è chiaramente percepibile nelle sue parole:

«Sarà la politica degli Stati Uniti promuovere le riforme nella regione, e sostenere le transizioni verso la democrazia... E il nostro sostegno a questi principi non è un interesse secondario. Oggi voglio dire chiaramente che è una massima priorità che dev'essere tradotta in azioni concrete, e sostenuta da tutti gli strumenti, diplomatici, economici e strategici a nostra disposizione».

Sui giornali americani, al contrario dei nostri, è qui che viene posto l'accento. Così oggi anche per Obama «lo status quo» nella regione «non è più sostenibile», «non conta solo la stabilità delle nazioni ma anche l'autodeterminazione degli individui», e «l'America deve usare la sua influenza per incoraggiare le riforme, politiche ed economiche, che vadano incontro alle aspirazioni legittime dei popoli». Ed è anzi pronta a sostenere concretamente, finanziariamente, lo sforzo di tutti coloro che avviano la transizione, a cominciare da Tunisia ed Egitto: «Se vi assumete i rischi del cambiamento democratico avrete il supporto degli Stati Uniti».

Gli Stati Uniti, ha ricordato, «sostengono una serie di principi universali, tra cui la libertà di parola, il diritto di scegliere i propri leader, si viva a Sana'a o a Teheran», e naturalmente la libertà di culto e i diritti delle donne, cui Obama ha espressamente dedicato un passaggio molto concreto: il potenziale (anche economico) della regione non sarà sviluppato se non sarà liberato quello delle donne. Ha severamente ammonito i regimi che usano la violenza e la repressione per tentare di bloccare il cambiamento, si è rivolto non solo a Gheddafi e al siriano Assad («conduca la transizione o lasci il potere»), ma anche agli storici alleati di Washington, Yemen e Bahrein. Ha denunciato «l'ipocrisia» del regime iraniano, che appoggia le rivolte all'estero e poi sopprime il dissenso al suo interno. Fra le novità positive Obama ha sottolineato anche la «multietnica democrazia irachena», spiegando che «ha un ruolo da giocare» nel cambiamento in atto, un passaggio che come ha notato il solo Molinari, su La Stampa, di fatto «rivaluta a posteriori» le controverse scelte dell'amministrazione Bush a Baghdad.

Naturalmente Obama sottolinea la continuità con il suo discorso del Cairo del 2009, ma la svolta se non a 180 gradi, è evidente. Se le proteste degli iraniani contro la rielezione di Ahmadinejad non riuscirono a scuotere il presidente Usa da posizioni appena enunciate, le rivolte di questi mesi in Medio Oriente e nel Nord Africa hanno dato una spallata definitiva, oltre che ad alcuni autocrati, anche alla realpolitik di ritorno obamiana.

Ha capito che gli eventi in corso rappresentano «un'opportunità storica di dimostrare che i valori americani sono gli stessi dei manifestanti» in Medio Oriente. E ha quindi abilmente fatto notare alla sua audience musulmana che le manifestazioni nonviolente «sono riuscite a ottenere più cambiamenti in sei mesi che il terrorismo in anni di stragi». Tenta così di rivolgersi e intercettare la «nuova generazione» che sta emergendo come protagonista in Medio Oriente, e i cui ideali e le cui aspirazioni non sono poi così diversi da quelli che ispirarono i coloni americani o gli attivisti per i diritti dei neri. Non solo per idealismo, ma anche perché ha capito che "conviene", rappresenta un'opportunità imperdibile anche per una più solida influenza americana nella regione, il cui vuoto verrebbe comunque riempito dai nemici dell'America, e quindi per perseguire al meglio anche interessi più materiali come quelli economici, la sicurezza energetica, la lotta al terrorismo. Questi interessi «continueremo a perseguirli, ma una strategia basata solo su questi interessi non sfama le popolazioni della regione, non dà libertà di parola, e alimenta il sospetto che i nostri interessi siano antitetici ai loro».

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di pv21 (---.---.---.18) 20 maggio 2011 19:30

    Liturgie nostrane >

    Il 28 aprile La Padania ribadisce il credo Leghista “bombe uguale più clandestini”.
    Allora La Russa garantisce che, una volta fissata la data d’accordo con gli Alleati, avremo il “termine certo” entro cui tornare a “neutralizzare” i radar libici (senza lanciare 1 solo missile).
    Frattini abbraccia, come realistica, “l’ipotesi di 3-4 settimane” per concludere tutte le operazioni militari aggiungendo, però, che serve intensificare la “pressione militare” per poter far partire l’iniziativa politica.

    In concreto.

    Da quel 28 aprile Lampedusa ha visto approdare sui 7000 migranti libici.
    A fine maggio, con questo ritmo, gli sbarchi potrebbero salire a 13-14mila “poveracci” spediti dal Rais.
    Un totale ben lontano, in ogni caso, da quei 50mila “profughi” più volte paventati da Maroni. Una “goccia” in confronto ai 750mila profughi (fonte ONU) già fuggiti da Gheddafi.

    PS > Coincidenza vuole che a fine mese si chiuda anche la tornata elettorale.
    Nel paese del Barbiere e il Lupo in nome della sicurezza si dicono e si fanno cose davvero singolari …

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